Leggere uno scritto è sempre come entrare, ogni volta, nell’anima dell’autore, condividerne esperienze e sentimenti, passioni ed emozioni. Ciò è ancor più vero quando si legge una poesia, intima e profonda, come quella di Antonietta Gnerre. Un verso delicato il suo che sembra accarezzare il mondo, abbracciarlo senza riuscire a stringerlo. Cercarlo, trovarlo e lasciarlo andare perché esso, il mondo, non può essere posseduto ma solo ammirato. Come la natura. Come l’anima.
Attraverso i suoi versi, Gnerre racconta se stessa e la sua terra: l’Irpinia, con le sue colline, i boschi, i torrenti e i crinali.
I temi dell’opera di Gnerre sono quelli cari alla poesia del Novecento. Con lo sguardo sempre rivolto alla poesia religiosa.
Il rapporto tra poesia e religione cristiana è un sottoinsieme del rapporto tra poesia e poesia religiosa in genere, dove si configura il sentimento del divino intrinseco in ogni uomo con l’espressione poetica. Giambattista Vico sottolinea questo legame tra poesia e religione quando parla di “poeti teologi”. Tutto ciò che è un fatto di anima o si svolge nell’ambito della coscienza, se manda fremiti o armonie, è pura poesia e poesia religiosa, perché l’anima, immagine di Dio, rende sacro il canto1.
«Il linguaggio metaforico, parabolico, visionario, profetico dei libri sacri vive di una mutua esaltazione tra spirito religioso e spirito poetico, al punto che sarebbe difficile operare a posteriori una separazione che non ci fu nella scrittura». In questo modo Luzi in Poesia e romanzo descriveva la considerazione della poesia come linguaggio organico originariamente manifestazione del pensiero religioso.
Antonietta Gnerre sembra rifarsi molto a queste correnti di pensiero nella scrittura delle sue poesie, riconducendo sempre il suo pensiero alla volontà e all’opera di Dio.
Lo sguardo dell’autrice è rivolto all’osservazione della natura e degli elementi naturali del suo territorio, di cui dimostra di conoscere anche gli angoli più nascosti che diventano intimi, come i suoi versi, allorquando, partendo dall’osservazione di ciò che la circonda, ella giunge a ispezionare se stessa. Ed è proprio questo viaggio introspettivo che sembra condurla verso la riflessione mistica, coscienziale. La sua poesia sembra diventare, allora, una preghiera.
«Sradicato dai vivi, cuore provvisorio, sono limite vano». Scriveva Quasimodo in Al tuo lume naufrago. In questi versi Carlo Bo vedeva compendiato il senso stesso della ricerca umana e religiosa del poeta2, e viene messa in luce proprio la condizione di ontologica precarietà in cui versa l’uomo invischiato nella sua mortale finitudine3.
Anche Gnerre sembra perseguire una simile ricerca, ma dai suoi versi traspare una maggiore speranza, con ogni probabilità legata ai dettami della religione e ai suoi insegnamenti su aldilà e riscatto dell’anima.
«Da qui pronuncio che c’è fiducia per il mondo, per la piuma che trema sull’intonaco delle nostre mani.»
L’uso accorto dell’espressione “per la piuma che trema sull’intonaco delle nostre mani” rimanda a un’immagine molto chiara dell’essere umano e della fragilità della sua esistenza. Un essere, l’umano, che deve fare ammenda per la violenza, la guerra. Per l’esser sordo al mondo e alla natura.
«Noi siamo tronchi secchi che fingono di non conoscere più il mondo. Stiamo imparando di nuovo, come i bambini, il nome dell’arbusto del viale. Che nel tramonto si pettina di luce.»
Riconciliarsi con la natura è un modo per riconciliarsi con la propria esistenza e con il mondo? Questo sembra essere l’interrogativo base del libro di Gnerre. E come si fa ad appropriarsi del concetto giusto di “vivere secondo natura”?
Ogni poeta guarda il mondo e la natura attraverso i suoi occhi e trascrive le sensazioni e le emozioni, le riflessioni e le analisi che sono sempre e comunque personali, uniche e, per certi versi, irripetibili. Eppure per Rondoni l’unico modo per comprendere cos’è la natura è affidarsi ai poeti4.
La poesia di Antonietta Gnerre non sembra avere in sé questa ambizione, se non riferita alla persona della stessa autrice, la quale dimostra di avere una visione più intima e intimistica della poesia, strumento di espressione del personale cammino di studio e conoscenza, di se stessa e del mondo che la circonda, attraverso la natura e tutti i suoi elementi.
Arriva sempre un momento nella vita nel quale ci si sente quasi obbligati a fare i conti con ciò che è successo, con i desideri realizzati e quelli disattesi, con le emozioni provate e il dolore subito, le delusioni e le aspettative che ancora animano anche gli animi più provati. Un bilancio emotivo ed esistenziale che Fratus sembra aver messo per iscritto in Una foresta ricamata e voluto condividere con i suoi imponderabili lettori.
È proprio all’imponderabile lettore che l’autore si rivolge fin dal proemio della sua opera, un lettore, un soggetto, una persona che a tratti sembra essere o diventare la coscienza stessa di Fratus, emersa dagli abissi del suo essere per ricordargli del tempo passato e dell’uomo che è diventato.
Ricorda l’autore i tempo andati e si rivede fanciullo in giardino a scoprire il mondo che lo circonda e gli animali che lo popolano. Oppure su uno scoglio a scrutare l’orizzonte e l’infinito. Da quei momenti all’oggi, Fratus sente che è sfumata una vita. Non si dichiara apertamente deluso. Afferma di aver, nonostante tutto, realizzato i suoi sogni. Eppure traspare, dalle sue parole, una sorta di malinconia, afferente più alle perdite subite che agli obiettivi mancati. Vuoti, mancanze che l’autore sembra aver voluto sempre riempire con solitudine e silenzio. Il bosco con i suoi alberi e i suoi “rumori” hanno aiutato Fratus a non sentirsi solo o abbandonato. Parte di quella stessa natura che lo ha da sempre attratto e mai deluso.
Descrivere svevianamente una vita, partendo dal limen della gioventù e possibilmente sbordando in un accrescimento non tanto materiale quanto psichico, tutto cucito di motivi interiori, ha in sé un’innegabile attrattiva1. E Tiziano Fratus sembra essersi lasciato attrarre dal racconto, in chiave quasi confessionale, del suo essere interiore oltre che della sua esistenza pubblica e privata.
Stefano Agosti ha definito la scrittura di Flaubert una «poesia della prosa»2. Anche la scrittura di Fratus sembra una poesia della prosa che racconta la natura, nella doppia accezione: botanica e umana. Indaga l’autore il mondo che lo circonda. Esplora il territorio e l’ambiente. E, a ogni sentiero di bosco percorso, sembra ritrovare una parte di sé, del suo essere nascosto.
La scrittura di Flaubert è servita, invece, a Lalla Romano per realizzare che «la prosa può essere altrettanto rigorosa della poesia, che prosa e poesia anzi sono la stessa cosa»3. Si ritrova, nella prosa di Fratus, quel legame interno tra le parole tipico della poesia. Parimenti, si ritrova nella sua poesia quell’attenzione alla descrizione più che al dettaglio tipica della prosa.
L’autore sembra guardare anche al Futurismo, laddove ripudia la struttura classica della frase o del verso e lascia che le sue parole si abbarbichino intorno a una struttura centrale, portante e rassicurante come un albero, che assume svariate forme e dimensioni. Più che un avvicinarsi a i temi del Futurismo però, l’opera di Fratus sembra volerne ricalcare la ribellione. Fare propria la volontà di libertà e di liberazione. Dagli schemi certo ma, soprattutto, dal male, dal dolore, dall’inciviltà del viver “civile”. Con lo sguardo sempre rivolto alla Natura amica. Un cammino, quello percorso da Fratus nella vita e nella scrittura, che lo porta dal Futurismo a Naturalismo e Verismo, e viceversa.
Seguendo le riflessioni di Hyppolite Taine, il narratore non viene più visto come un inventore ma un osservatore che analizza una tranche de vie sottolineando i rapporti di causa-effetto che determinano i rapporti umani.
Nell’opera di Fratus i rapporti posti sotto la lente d’ingrandimento sono soprattutto quelli dell’uomo con la natura. E i rapporti di causa-effetto sono perlopiù le conseguenze dell’agire umano: «chiedo scusa al filo d’erba e chiedo scusa all’usignolo che batte le ali in gabbia e chiedo scusa al ruscello di cui ho deviato il corso e chiedo scusa al mare che ho inquinato».
Il rapporto uomo-natura è stato declinato in maniera diversa nelle differenti culture ma, nel corso del tempo vi è stata una progressiva accentuazione della visione antropocentrica.
Per noi europei la condizione generica è sempre stata l’animalità: tutti sono animali, solo che alcuni (esseri, speci) sono più animali di altri. Noi umani siamo i meno animali di tutti. Nelle mitologie indigene, al contrario, sono tutti umani, solo che alcuni di questi umani lo sono meno di altri. Tutti gli animali hanno un’anima antropomorfa: il loro corpo, in realtà, è una specie di abbigliamento che nasconde una forma fondamentalmente umana (con un’anima)4.
Negli scritti di Fratus si ritrova, innata, questa filosofia. Egli sembra esserci arrivato mediante l’osservazione di ogni essere abitante il bosco, la cui esistenza ha incontrato quella dello stesso autore, cambiandola radicalmente. Gli occhi di Fratus sembrano diventare quelli di Pascoli, ed egli stesso veste i panni del fanciullino osservando il mondo che lo circonda con lo stupore e la naturalezza che solo l’essere in bilico tra infanzia e maturità può dare.
Un equilibrio da cui l’autore sembra subito prendere le distanze, in uno slancio di ribellione che diventa volontà di diniego del passato e tensione verso il futuro.
«c’è questo mio silenzio e c’è il silenzio che abita i grandi alberi, e ci sono le vaste foreste, che sono grandi silenzi suddivisi e ordinati. e poi c’è la vastità dell’esistere, del pulsare, del nascere e del morire. E, alfine, c’è il pensiero, che non si adagia un attimo, che anche quando medito galoppa e invade e si incunea.»
Un pensiero, quello descritto da Fratus, che inneggia alla velocità, al dinamismo. In contrasto con il silenzio del bosco e della persona, statici, quasi fermi, passivi. Il pensiero in movimento si allinea di più con la vastità dell’esistere, del pulsare, del nascere e del morire. I versi di Fratus ricordano a tratti il manifesto futurista di Marinetti, lo scontro aperto con il latino, quel classico imbecille che ha testa, ventre, gambe e piedi piatti, ma non due ali per volare. Cerca, invece, Marinetti la velocità e il movimento5. Egli volveva chiudere i ponti con il passato, distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie. Fratus vuole chiudersi nel bosco. Il fruscio degli alberi e il cinguettio degli uccelli divengono allora l’elica turbinante di un aereo sopra Milano che ha ispirato il Manifesto tecnico della letteratura futurista, ed è questo nuovo “rumore” a ispirare Tiziano Fratus nella scrittura del suo personalissimo manifesto che egli immagina e descrive come un’opera d’arte, prima ancora che letteraria, e la suddivide in “quadri”.
Anche Fratus, come Marinetti e i futuristi, abbandona e ripudia le vecchie regole grammaticali e di sintassi creandone di proprie, tessendo i suoi versi come un vero e proprio ricamo che parte da alberi e natura e si sviluppa intorno a essi. Una tela nutrita e curata dai sentimenti e dalle emozioni dello stesso autore. Dalla sua stessa esistenza che galoppa intorno al pensiero incessante di questo autore il quale, in questo modo, urla tutto il suo silenzio.
Il libro
Tiziano Fratus, Una foresta ricamata. Parole scucite tra selve e silenzi, Mimesis, 2025.
1A. Fraccacreta, Crescere sempre con il romanzo di formazione, su Maremosso. Il magazine dei lettori, 22 marzo 2023.
2S. Agosti, Tecniche della rappresentazione verbale in Flaubert, Milano, Il Saggiatore, 1981.
3L. Romano, Vi racconto una storia. Itinerari nella narrativa italiana contemporanea, in Scuola e Territorio, Rimini, 1985, p. 155.
4E. Viveiros De castro, Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindio, Milano, Meltemi, 2023.
5A. Cipolloni, Marinetti e il Futurismo: il Manifesto, in Maremosso. Il magazine dei lettori, 18 novembre 2022.
Un tempo fonte di imbarazzo, vergogna, senso di inferiorità, l’ignoranza è oggi un prodotto di straordinario successo, spesso sbandierato con orgoglio. E l’Italia è uno dei migliori luoghi al mondo per la sua ideazione, produzione, commercializzazione e consumo.
Questa, in sostanza, la tesi del libro di Paolo Guenzi. Un testo che indaga a fondo il fenomeno che ormai sembra dilagare nella vita reale come anche in quella virtuale.
Ma come si è arrivati a tutto ciò? Si chiede l’autore.
Anche attraverso il marketing dell’ignoranza, ovvero il sofisticato processo di creazione e diffusione dell’ignoranza quale valore e pratica quotidiana nella vita della società. È la risposta che si dà e che argomenta ampiamente nel libro.
Logiche e strumenti di marketing pensati per migliorare i rapporti fra le imprese e i loro clienti possono diventare nocivi per la comunità se diffusi su larga scala senza responsabilità e senso critico, in modo malevolo, spregiudicato e opportunistico. Si tratta di un meccanismo subdolo e sublimale, un’asticella invisibile che si alza progressivamente, un virus che inesorabile divora la coscienza della collettività contaminando ideali, pensieri, emozioni e comportamenti.
È inutile negarlo, sottolinea Guenzi nel libro, l’ignoranza da noi piace, e molto. E fa fare anche un sacco di soldi.
Un posto d’onore, in questo processo di galoppante affermazione del marketing dell’ignoranza, l’autore lo riserva ai politici e ai pubblici amministratori, nonché al sistema dei mezzi di informazione.
Per la maggior parte dei filosofi e dei principali pensatori della storia, l’ignoranza è un fenomeno negativo. La cultura, invece, ha una connotazione positiva. Per Spinoza, chi aumenta il proprio sapere accresce anche la gioia di vivere. Conoscenza e cultura sono precondizioni per essere felici. Ma allora perché l’ignoranza è così diffusa e addirittura valorizzata?
L’autore ricorda l’antico detto dell’Ecclesiaste: «Qui auget scientiam, auget et dolorem» (Chi accresce la propria sapienza, aumenta anche le proprie sofferenze).
È una visione condivisa da Schopenhauer, secondo il quale «nella stessa misura in cui la conoscenza perviene alla chiarezza, e la conoscenza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge perciò il suo massimo grado nell’uomo, tanto più, quanto più l’uomo distintamente conosce ed è più intelligente. La persona in cui vive il genio, soffre più di tutti».
L’ignoranza costituisce un potente antidoto a molte forme di sofferenza, un formidabile anestetico a molte delle difficoltà, dei dubbi, dei tormenti che la vita inevitabilmente propone. All’estremo, l’ignoranza porta a una insensibilità che riduce o elimina la vulnerabilità. Non è solo una condizione, ma in molti casi anche una filosofia esistenziale, una scelta quotidiana (più o meno consapevole), un modo di essere, di intendere la propria vita e la relazione con il mondo e, in particolare, con le persone intorno a noi. Al riguardo, sottolinea Guenzi, in Italia la situazione è decisamente grave: secondo il Rapporto PIACC del 2024, nel nostro Paese il 35% degli adulti è in una condizione di analfabetismo funzionale, cioè sa leggere ma fatica a comprendere il senso anche solo di frasi semplici, e non riesce a eseguire calcoli matematici elementari. Questi dati ci collocano agli ultimi posti fra i Paesi OCSE, industrializzati.
Lo studio di Paolo Guenzi dimostra quanto queste persone, in tali condizioni, difficilmente possono gestire le complessità della vita contemporanea, orientarsi nella massa delle informazioni e contribuire al raggiungimento di decisioni e politiche più consapevoli, il che rappresenta una preoccupazione crescente per le democrazie moderne.
Nella maggior parte dei casi le compagnie di comunicazione delle strategie di marketing di maggiore successo sono accomunate dalla volontà e capacità di costruire un mondo idealizzato e rasserenante in cui i problemi, le preoccupazioni, le fatiche, le difficoltà e le fisiologiche brutture della vita sono magicamente assenti. Di per sé, trasmettere un modello di esistenza leggero, sereno e allegro non è un crimine, tuttavia, come per altri ingredienti del marketing dell’ignoranza, l’impatto sulla collettività della sistematica disseminazione a reti unificate di questa visione idealizzata e irrealistica del mondo ha conseguenze profonde sul sistema di valori e sullo stile di vita di un’intera società. Per Guenzi, l’interiorizzazione collettiva di uno pseudomondo artificiale in cui quasi tutti sorridono e si godono la vita rende inconciliabili con la propria esistenza altri concetti connaturati agli esseri umani come fatica, sofferenza, dolore, impegno.
In una società così profondamente e pervasivamente dominata dall’apparire e dalla sovra-comunicazione, qualsiasi dato, abilità, conquista, risultato non conta in sé, ma vale solo nella misura in cui viene mostrato ad altri. Non c’è gratificazione senza condivisione.
Ed ecco allora che la vita immaginaria delle campagne di comunicazione diventa la vita immaginata degli utenti dei social network.
Anche la smart-economy, per certi versi, è un sintomo del marketing dell’ignoranza nella misura in cui si producono prodotti sempre più intelligenti per consumatori sempre più stupidi. Ritiene infatti Guenzi che, a livello sistemico, all’aumentare dell’intelligenza dei prodotti corrisponda necessariamente, o comunque con un alto grado di probabilità, una generale riduzione dell’intelligenza degli esseri umani che li acquistano, utilizzano e consumano. Lo sviluppo della conoscenza e dell’intelligenza in senso più lato deriva infatti in buona parte dall’apprendimento che scaturisce dagli errori.
Il marketing dell’ignoranza è un racconto in chiave minuta di quanto è sotto gli occhi di tutti. L’autore, contrariamente a quanto accade per le sue altre pubblicazioni, ha accantonato lo stile accademico e ricercato, ha ridotto al minimo fonti, citazioni e dati. Limitandosi a riportare la cruda a amara realtà dei fatti. L’ovvietà di ciò che l’autore scrive – intendendo con ovvietà il fatto che quanto egli racconta sia palesemente oggettivo e reale – dovrebbe essere di per sé un deterrente a proseguire lungo questa via eppure sembra che questo delirio del marketing dell’ignoranza, con tutti gli annessi e connessi, volga invece in direzione opposta, coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone, e colpisca trasversalmente per fasce di età e reddito. Gocce di un vero e proprio “lento tsunami” che si abbatte ogni giorno su cultura, formazione e intelletto.
Il libro
Paolo Guenzi, Il marketing dell’ignoranza. Un prodotto Made in Italy di straordinario successo, Milano, Egea, 2025.
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Sullo sfondo domestico di una provincia come tante si intrecciano le sorti di uomini e animali; li lega il filo attorcigliato del narrare, che nello scorrere ritorna, si smarrisce riprendendosi. Raccolta sì ma dispersa: dentro un oceano di libertà che diventa anche distanza incolmabile. Ed è proprio il racconto, imperfetta cucitura tra vicino e lontano, a farci credere ancora possibile comunicare noi.
Galline rivoltose, un investigatore da strapazzo e fiori di stramonio che fanno rinsavire. Una luna smozzicata da serpenti illumina il cielo di un pollaio e del mondo, ma sono la stessa cosa.
La base da cui Conforti sembra attingere a piene mani per le sue “storie semiserie” sono tutte le leggende popolari, narrazioni salvate dall’oblio per la maggiore grazie al racconto orale. Storie di uomini che vivevano a stretto contatto con la natura e con gli animali e da questi traevano lo spunto per insegnamenti e racconti.
Parabole di vita quotidiana che l’autore riprende, rielabora, trasforma, immagina.
Raccontare storie è forse uno dei bisogni primari dell’uomo, sin dai tempi più antichi. Leggende, racconti, miti e superstizioni: sono tutti parte di un patrimonio culturale universale e rispondono alla necessità di creare e ricreare mondi magici come modo di spiegare e affrontare una realtà tangibile, nella quale la ragione domina sull’immaginazione.
Il racconto è una narrazione organizzata nella quale una situazione iniziale volge a una situazione finale differente a seguito di varie peripezie. Esse possono ripetersi o variare e sono arricchite da elementi meravigliosi, oggetti magici, trasformazioni e poteri soprannaturali. La narrazione mette in scena una società fittizia, di uomini o animali, ma tutti sanno che, in realtà, dietro essa si nasconde una comunità reale.1
«Era un paese piccolo, la strada dalla città arrivava simile a una schioppettata e si faceva più sinuosa salendo verso gli appennini: eravamo lì stretti tra il fiume e le colline, con l’aria ancora buona e l’acqua da farci il bagno d’estate. Era quello, il nostro mare: e per tanto tempo ho immaginato che l’oceano non potesse essere più di quei sette, otto metri che dividevano una riva dall’altra del fiume.»
Conforti ha dato libero sfogo alla sua fantasia nell’immaginare le storie de La mula e gli altri, a immaginarne i luoghi e gli sviluppi. Storie che possono essere tanto immaginarie quanto reali, o meglio realistiche, svolgentesi in luoghi che, altrettanto, possono essere tanto immaginari quanto reali, o realistici. Uno qualsiasi dei tanti paesini che costeggiano la dorsale appenninica potrebbe essere lo scenario dal quale l’autore si è lasciato “incantare”.
Il ritorno ai racconti popolari, alle antiche leggende, sembra essere servito a Conforti per fotografare l’umanità di oggi, sempre alla ricerca del cambiamento, della novità. Con il paradosso che questa “ricerca” viene condotta tramite un’esistenza apatica.
L’uomo moderno, come l’uomo di sempre, desidera conoscere sempre più a fondo il mondo che lo circonda, e proprio per questo si pone domande sempre più incisive e coraggiose su di sé, sul senso delle cose, sul loro significato, cominciando da ciò che rappresentano per lui, dal suo vissuto.
L’aspirazione alla felicità rappresenta nella cultura contemporanea un vero e proprio diritto umano, su cui si modella l’impianto della coesione sociale. Là, dove il bene comune diventa itinerario di responsabilità, si crea una felicità condivisa, che richiede a tutti un diverso modo di conoscere la realtà, di leggerla dal di dentro, per interpretarla come specchio della condizione umana.
È il mistero della nostra stessa umanità: cercare qualcosa che già abbiamo, voler sapere qualcosa che già sappiamo. “Qualcosa” che è dentro di noi, che ci appartiene intimamente, ma non pienamente, per cui alla sua piena realizzazione aspiriamo con tutte le nostre forze. È in questa dialettica tra ciò che abbiamo e ciò che ci manca, in riferimento allo stesso oggetto, vale a dire la nostra felicità, che diventa possibile la piena realizzazione della persona nella sua singolarità e la pienezza di senso della condizione umana.2
Altra tematica che Conforti affronta nel testo sono i tanti e irrisolti quesiti della storia. Misteri che sembrano destinati a rimanere irrisolti ma che forse troveranno soluzione proprio nell’irrazionalità del libro. L’irrazionale diviene così il nuovo volto del reale. Il caos del concreto. L’illogico del buonsenso. Il passato diacronico degli eventi l’unica alternativa possibile all’aridità del solo qui e ora.
L’esplorazione che l’autore conduce sui temi del folklore degli antichi racconti porta inevitabilmente a un altro tema sempre centrale della letteratura: la fanciullezza.
In Conforti, come già in Leopardi, la fanciullezza suscita una simpatia viva, profonda, una vera amabilità. Per la purezza di spirito, per la vicinanza alla natura e agli animali, per l’amore e l’interesse verso le cose semplici, piccole. Le myricaedel Pascoli.
I mondi fantastici raccontati dalle storie della tradizione popolare, come quelli narrati da Conforti, sembrano il servertramite il quale la storia ha conservato il materiale per il genere fantasy e fantascientifico. Dalla fiaba al fantasy a farla da padrone sono la magia e gli animali fantastici. Nel testo di Conforti, nella notte dell’Epifania – ricorrenza ricca di valenze simboliche – gli animali possono parlare.
La tendenza a una metamorfosi umanizzante del reale, che è naturale e congenita alla mente umana, è stata accresciuta e potenziata da una ormai millenaria tradizione di esposizione alle personificazioni nella letteratura e nell’iconografia. Essa viene poi oggi, nella nostra cultura contemporanea, sollecitata continuamente e in modo pervasivo da forme moderne di comunicazione di massa come i fumetti e i cartoon, in cui regnano animali totalmente umanizzati.3
Alessandro Conforti spesso fa un uso satirico e ironico della personificazione. Una modalità di utilizzo che ricorda molto la funzione svolta dalla personificazione nella stampa satirica in generale e quella risorgimentale in particolare.
Come il romanzo, il giornale è stato agente della trasformazione in senso nazionale degli immaginari pubblici otto-novecenteschi; rispetto al romanzo, tuttavia, il giornale implica peculiari modalità di lettura e composizione, fondate sulla giustapposizione di elementi eterogenei. La personificazione del giornale non è soltanto una particolare figura retorica del linguaggio satirico. È il nucleo centrale di una strategia mediale di narrazione; è una fondamentale modalità di auto-rappresentazione dei giornali satirico-politici, che coinvolge da vicino l’approccio del giornale nella costruzione simbolica del proprio ruolo e nei confronti del pubblico.4
Anche nel libro di Conforti, sotto lo strato ludico ricreativo, si riesce a leggere una scrittura se non proprio di denuncia, “educativa”, laddove vuol mostrare agli uomini e all’umanità pregi e difetti del nostro essere società estremamente civilizzata.
Il libro
Alessandro Conforti, La mula e gli altri. Faccende semiserie di provincia, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025.
1E. Scopelliti, I racconti popolari del Marocco, in Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019.
2P. Binetti, La cultura del cambiamento e dell’innovazione tra scienza e coscienza, in Counseling, volume 11, numero 3, ottobre 2018.
3G. Moretti e A. Bonandini (a cura di), La personificazione allegorica nella cultura antica fra letteratura, retorica e iconografia, Università degli Studi di Trento, 2012.
4S. Morachioli, Il volto del giornale. Usi e funzioni della personificazione nella stampa satirica risorgimentale, in MEFRIM, 130/1 – 2018.
Oscillazione di Mario Sughi è un romanzo in tre atti, tre novelle brevi che sembrano seguire strade distinte, ma puntualmente si sovrappongono, si intrecciano, si richiamano, si rispondono.
Il fragile equilibrio tra caso e destino, tra incontri fortuiti e scelte irreversibili, si dispiega in una narrazione circolare che lascia spazio al non detto, alle assenze, ai ricordi che affiorano e si dissolvono.
La scrittura in atti è, normalmente, tipica del teatro. Peculiarità di una sceneggiatura è proprio la suddivisione in atti. Quella in tre atti inoltre sembra essere ed essere stata la preferita perché consente meglio di fornire una struttura coesa e coinvolgente. Impostazione, confronto e risoluzione sono infatti i cardini di questo tipo di sceneggiatura.
Ma il libro di Sughi non è una sceneggiatura e i suoi “tre atti” non sono una suddivisione strutturale dell’opera. Le sue novelle brevi ricordano piuttosto una struttura simile, in versione ridotta, del Decameron per esempio. Sono storie a sé stanti eppure legate insieme da un sottile fil rouge. O meglio ancora, ricordano la configurazione tipica di alcune opere di Pirandello, strutturate inizialmente come novelle e poi, successivamente, trasformate in romanzo. Sughi ha cercato però di mantenerle separate, seppur facendole confluire in un’unico libro, giocando con il non detto, con i ricordi, con dei “vuoti” narrativi che il lettore è libero di riempire secondo volontà propria e personale.
A legare la narrazione contribuiscono anche le illustrazioni di cui è pieno il libro. Rappresentazioni visive delle scenenarrate.
La nascita del mercato del libro è coincisa con l’avvento dell’immagine riprodotta con mezzi meccanici e in particolare della stampa. Stampa che ha rappresentato il mutamento più profondo di tutto il periodo nel campo della comunicazione visiva, ampliando notevolmente la disponibilità di immagini.1 Produzione, lettura e circolazione delle opere letterarie sono anche un fatto visivo, leggere molto spesso vuol dire, e per larghe fasce della popolazione ha voluto dire talvolta soprattutto, guardare. E il discorso vale su ogni livello della produzione culturale.2
Illustrare una storia significa molto più che inserire immagini, perché vuol dire scegliere modelli, confrontare le fonti, e, soprattutto, comporre un nuovo corpo testuale, che diventa, anche rispetto alla sintassi dei capitoli, un organismo più dinamico, grazie agli effetti di campo e controcampo con cui si incontrano le illustrazioni finali e quelle iniziali dei capitoli.3
Il territorio della scrittura iconotestuale è ampio, complesso ed eterogeneo. Racchiude modalità molto diverse di relazione fra testi e fotografie presenti in un libro: i volumi illustrati, nei quali le immagini si sovrappongono e si accostano alle parole; i Photo-texts per i quali l’integrazione fra i due codici appare più stretta soprattutto nel caso in cui testi e fotografie sono espressioni diverse di un unico autore; i Photo-books, libri nati per lo più dalla collaborazione fra uno scrittore e un fotografo, in cui la dimensione più evidente della trama verbo-visiva è sostanzialmente dialogica e relazionale.4
Nel romanzo di Sughi le immagini, come nei Photo-texts, sono la rappresentazione della creatività dell’autore utilizzando due codici artistici differenti. Ciò che il lettore non riesce a ben comprendere e che rimane uno dei vuoti, presumibilmente voluti, lasciati dall’autore è se il testo narrativo sia stato scritto come supporto alle illustrazioni o viceversa.
Le numerose illustrazioni presenti in Oscillazione sono immagini dal tratto semplice, con colorazioni che vanno dal pastello ai rossi intensi. In alcune immagini il colore scompare e rimane sono un tratto nero-grigio su sfondo bianco. Minimalista eppure molto intenso che cattura lo sguardo e l’attenzione dell’osservatore anche in misura maggiore delle immagini colorate.
I colori fanno parte degli elementi attraverso i quali i sensi apprendono la realtà. Che l’uomo percepisca i colori attraverso l’occhio è indubbio; ma questi possiedono, esplicano e manifestano anche altre funzioni che non sono connesse soltanto all’ambito prettamente visivo e sensoriale, ma possono svolgere anche un ruolo “morale”, sensibile, estetico. Il “linguaggio” del colore si configura così come un linguaggio simbolico particolare, fatto anche di “suggestioni”, che non provengono dalla sola osservazione razionale. Per lungo tempo in Occidente ha prevalso una organizzazione ternaria dei colori, legata al bianco, al nero e al rosso. Per la cultura occidentale, quindi, i colori servono a designare gli orientamenti, i pianeti e gli elementi naturali, ma anche la dualità intrinseca dell’uomo che si esprime con il bianco e il nero.
Comunemente questi simboleggiano la luce e le tenebre, la conoscenza e l’ignoranza. Ma il nero, oltre a questa accezione negativa, ne possiede anche un’altra, positiva, come simbolo del principio di fecondità. In ogni mito sulla formazione dell’universo, in fatti, il nero rappresenta l’indistinto primordiale, è un’interpretazione comune a molte cosmogonie.5
La medesima percezione si ha leggendo il libro di Sughi e, soprattutto, osservando le illustrazioni nelle quali il tratto maggiormente incisivo lo dà il nero. Come un inchiostro. Come l’inchiostro che ha trasformato i pensieri in parole. Le idee in caratteri, spazi, paragrafi, capitoli, atti.
Anche la scrittura di Sughi mantiene le caratteristiche delle illustrazioni: colori accesi e vivaci che vanno a comporsi e prendere vita su una superficie piana. Eleganza, volume e profondità di intenti e significati.
Il libro
Mario Sughi, Oscillazione. Romanzo in tre atti, hoppípolla, 2025.
1Asa Briggs – Peter Burke, A Social History of the Media. From Gutemberg to the Internet, Polity Press, 2009.
2Claudia Cao – Giuseppe Carrara – Beatrice Seligardi, La narrativa illustrata fra Ottocento e Novecento, in Between, vol. XIII, n. 25 (maggio 2023).
3Daniela Brogi, Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo, Carocci, 2018.
4Maria Rizzarelli, Nuovi romanzi di figure. Per una mappa del fototesto italiano contemporaneo, in Narrativa, n. 41 | 2019.
5Caroline Pagani, Le variazioni antropologico-culturali dei significati simbolici dei colori, in Leitmotiv – 1 – 2001.
Che cos’è l’Africa per l’Italia e per l’Europa? La si dipinge alternativamente come terra delle opportunità o come mostro demografico pronto a schiacciarci, giacimento a cielo aperto o antro di malattie e pandemie, partner per gli aiuti internazionali o socio nel commercio internazionale, lions on the movei o bottom billionii. Cosa sono l’Italia e l’Europa per l’Africa? Di fronte ai mutamenti indotti dalla deglobalizzazione e dalle guerre in corso, l’Africa è alla ricerca di un’autonomia che le permetta di fare le proprie scelte in maniera indipendente. Il modello di sviluppo occidentale sembra stia portando tutti in un vicolo cieco ecologico. Il continente africano, che non ha ancora intrapreso tale percorso, è forse nella posizione migliore per inventare un nuovo modello iii.
I saggi raccolti in Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa (Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2024), volume collettaneo curato da Mario Giro iv, indagano i vari aspetti delle relazioni fra Italia, Europa e Africa per comprendere se davvero la risposta agli interrogativi sia inclusa o meno nel Piano Mattei del governo Meloni. Ma, soprattutto, mettono in evidenza i punti programmatici mancanti o su cui si dovrebbe lavorare per rendere il Piano, attualmente in una fase ancora embrionale, davvero incisivo ed efficace nella costruzione di un partenariato equo e duraturo.
Il Continente africano sta attraversando una serie di transizioni epocali in campo economico, sociale, politico e demografico. Si prevede che la sua popolazione sarà più che raddoppiata entro il 2050 e supererà quota 2,5 miliardi, un quarto di quella globale. L’Africa rimarrà, in futuro, anche la regione più giovane del mondo, con un’età media di 25 anni. Possiede circa il 30% delle riserve minerarie, il 7% delle risorse petrolifere e di gas e oltre il 60% delle terre arabili incolte del mondo. Il Governo italiano guidato da Giorgia Meloni intende imprimere, con il Piano Mattei, un cambio di paradigma nei rapporti con il Continente africano e costruire un partenariato su base paritaria, che rifiuti tanto l’approccio paternalistico e caritatevole quanto quello predatorio, e che sia capace di generare benefici e opportunità per tutti v.
Fondamentale per l’attuazione del Piano Mattei per l’Africa è il ricorso al Fondo italiano per il Clima, il cui 70% è dedicato all’Africa per la realizzazione di iniziative nei settori dell’idrogeno verde, dell’energia rinnovabile e dell’adattamento agricolo al cambiamento climatico, per il ripristino della biodiversità e per l’uso sostenibile delle risorse naturali. La dotazione iniziale del Piano Mattei è di 5 miliardi e 500 milioni di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, di cui circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il Clima e 2,5 miliardi dei Fondi della Cooperazione allo Sviluppo vi.
Si consideri che nello stesso arco temporale durante il quale la popolazione africana crescerà e l’età media sarà sempre più bassa, l’Europa vivrà un forte declino demografico. Nel 2050, l’Italia avrà registrato un presumibile calo di 7 milioni di abitanti, con piccoli comuni svuotati, un rilevante aumento degli ultraottantenni e una conseguente riduzione della ricchezza nazionale e del welfare, a partire dall’insostenibilità del sistema pensionistico vii.
Viceversa, la popolazione in età lavorativa in Africa, attualmente pari a circa il 56% del totale, aumenterà fino al 63% nello stesso periodo. Il Piano Mattei si propone di dare priorità a quegli interventi che si prefiggono di promuovere la formazione e l’aggiornamento dei docenti, l’adeguamento dei curricula, l’avvio di nuovi corsi professionali e di formazione in linea con i fabbisogni dei mercati del lavoro locali. Potranno essere impiegate le nuove piattaforme digitali per l’apprendimento della lingua italiana a distanza. Egualmente, si potrà considerare il coinvolgimento delle Università italiane nell’attuazione di iniziative di formazione nel Continente africano. Da questo punto di vista è significativa l’esperienza realizzata dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) con il “Partenariato per la conoscenza”, che ha l’obiettivo di mettere in rete le migliori competenze tecniche e accademiche italiane per l’alta formazione. Oltre alla finalizzazione e al negoziato di diversi memorandum d’intesa in alta formazione, ricerca e innovazione, a oggi sono circa mille gli accordi inter-universitari con atenei africani, ai quali si aggiungono circa duecento progetti universitari (il 47% dei quali nel settore della formazione). Il sistema universitario italiano è disponibile a condividere con le Università africane il know-how nel campo della ricerca, del trasferimento delle conoscenze e della formazione, con l’obiettivo di sviluppare rapporti di collaborazione paritaria e di crescita comune viii.
Il calo della popolazione italiana è in costante aumento dal 2014, con una contrazione delle nascite e un innalzamento della speranza di vita, un conseguente aumento della popolazione anziana e una riduzione di quella giovane. Secondo questo trend, nel 2050 a essere aumentati saranno solo gli over 55, con un +45,7%, mentre la fascia 18-21 sembra essere destinata a crescere solo del 3,2%. Avere meno giovani significherà avere anche meno immatricolati e meno laureati, con un peggioramento netto della situazione italiana a livello mondiale. Nel 2020 la Commissione Europea ha presentato la European Skill Agenda con dodici azioni finalizzate a promuovere lo sviluppo delle competenze che i cittadini dovrebbero avere per essere in grado di affrontare la complessità del mondo contemporaneo. Sin dalle prime pagine del documento, si sottolinea come la crescita dei Paesi sia strettamente connessa alla preparazione dei propri cittadini. L’istruzione in giovane età rimane fondamentale ma costituisce solo la prima tappa di un percorso di vita, ovvero la prospettiva del lifelong learning.
Nel nostro Paese il 63% delle persone occupabili (ovvero di età compresa tra i 25 e i 64 anni) ha almeno un titolo di studio secondario superiore, contro il 79,5% della media europea e l’83,3% di Germania e Francia. Il 20,3% possiede un titolo di studio terziario (universitario). Una percentuale nettamente inferiore alla media europea (30,4%) e circa la metà di quella registrata in Francia e Germania ix.
I giovani di età compresa tra i quindici e i trenta anni sono al massimo della potenza biologica, sessuale e ideativa eppure la società italiana, e occidentale in generale, se non ne fa proprio a meno, certamente non impiega opportunamente e utilmente quella generazione. Che futuro potrà mai avere, se ce l’avrà, questa società che ignora i propri giovani?
La verità è che, per certi versi, la vecchia società, ancorata a quelli che ritiene baluardi e principi inderogabili, sembra quasi aver paura di questa “massa giovane” di nichilisti attivi che appaiono come i soli ad aver compreso che l’amore è l’unico antidoto al valore del denaro, che non hanno timore di cambiare, stravolgere l’ordine dato, evolvere la società in altro x. Il punto è che la società italiana, e occidentale in generale, sembra non comprendere neanche i giovani stranieri. Si chiede retoricamente Mario Giro nel testo cosa abbia mai la gioventù africana globale che gli occidentali non capiscono, abituati a un mondo in cui i giovani sono pochi.
Questa gioventù possiede un irrefrenabile desiderio di contare, di diventare soggetto, ed è disposta a correre grandi rischi per ottenere il suo posto nella globalizzazione che tutto offre e nega allo stesso tempo. L’atto migratorio diviene l’avventura individuale dell’invenzione di sé, del proprio posto nel mondo. Imparano a essere aggressivi e meno mansueti dei loro genitori: nelle grandi città africane la vita ha assunto i contorni di una lotta per la sopravvivenza che poi si ripete al di là del Mediterraneo. Oggi migrare è realizzare il sogno individuale di prendere in mano il proprio destino.
Lo sguardo occidentale – qualunque sia la posizione sugli immigrati – è miope: non vede la forza colossale insita in tale nuova generazione africana che non si ferma davanti a nulla, esce dal proprio ambiente e va verso l’ignoto. Avventurieri è la parola usata in Africa per chi decide di emigrare in Europa, coloro che hanno il coraggio di fare il “grande viaggio”. Giovani i quali ormai compiono il cammino iniziatico senza più supervisione degli anziani, non c’è bosco sacro, non ci sono classi di età, si supera anche l’etnia. Ci sono solo individui immersi nel caos. La mentalità dell’africano adulto o anziano è ancora legata ai vecchi miti e alle ideologie anni Sessanta, come il panafricanismo, il socialismo africano, il federalismo o la negritudine. La percezione delle giovani generazioni è diversa: tra di esse prevale un’aspettativa di prosperità individuale e molto competitiva. È sorto un ceto medio africano più istruito e culturalmente globalizzato ma meno interessato al futuro comune xi.
Per la giovane generazione intellettuale africana il continente non è più nero ma grigio: fallita l’Africa romantica che fingeva sulla propria grandeur precoloniale, immaginava emozioni e progettava nuove prospettive comunitariste, rimane un’africa sterile e mancata che, tra corruzione e violenza, non ha saputo voler bene ai propri figli i quali ora la disconoscono e hanno smesso di amarla. È questa la rottura sentimentale che si compie: innanzitutto una frattura con sé stessi, con la propria terra matrigna. Ma non si può amare nemmeno chi ha contribuito a renderla così: il mondo “bianco” che non ha risposto alla domanda di reciprocità dei padri. Tra la retorica di un’Africa eterna e il vittimismo costante, resta solo un grande vuoto di cui i giovani africani sono figli. Spaesati – come i loro coetanei di altri continenti – nel grande flusso della globalizzazione, reagiscono con una mentalità egocentrica e globalizzata al contempo.
Oggigiorno molti giovani “votano con i piedi”, cioè se ne vanno. Dopo la generazione sacrificata dell’aggiustamento strutturale (1985-2000) xii, oggi ne è giunta a maturità un’altra che non vuole fare la stessa fine. Per questo si ribella a modo suo e non si fida più di nessuno. La sfida è ricreare un terreno d’intesa ricostruendo le basi di un dialogo comune. xiii
Uno dei modelli di integrazione, diffuso soprattutto in Germania, Svizzera e Belgio, è quello del “lavoro temporaneo”, il quale accoglie immigrazione sulla base di necessità stagionale, temporanea e settoriale di manodopera, permettendo l’ingresso a persone alle quali vengono garantiti diritti sindacali ma non politici. Non vengono offerte opportunità di integrazione ma solo di lavoro. Tutto ciò, costruito nell’ottica di una migrazione circolare, presuppone permessi di soggiorno legati alla durata del contratto di lavoro, eventualmente rinnovabili, esclude la possibilità di ricongiungimenti familiari e rende molto difficolto l’accesso alla cittadinanza. La Francia, invece, ha quasi sempre prediletto l’approccio assimilazionista. Il processo di naturalizzazione prevede una rapida omologazione anche culturale, mediante adesione alle regole democratiche laiche che fondano la comunità francese. L’Italia non ha mai davvero adottato alcun modello per cui il sistema di integrazione viene “costruito” nei fatti dalla stratificazione normativa vigente in materia. xiv La fattispecie risultante potrebbe essere definita con un ossimoro assimilazionista di tipo escludente.
La mancanza di un qualsivoglia modello teorico adeguato ad affrontare la questione immigrazione nel nostro Paese va inteso come l’effetto di alcuni fattori che hanno orientato il dibattito pubblico in senso emergenzialista e conflittuale, producendo esiti frastagliati dovuti proprio alla mancanza di un paradigma generale. xv In Francia viene richiesto agli immigrati di assimilarsi al sistema culturale ospitante e in cambio viene offerta una rapida e piena integrazione che culmina con l’attribuzione della cittadinanza, in Italia questo scambio risulta fortemente impari: i migranti dovrebbero rinunciare alla loro identità etnica, culturale e religiosa in cambio di nulla.
La politica migratoria del governo Meloni presenta una tripartizione netta e ben definita. La prima politica è quella inerente l’accoglienza dei rifugiati ucraini e mantiene, sostanzialmente, la linea dettata dal governo Draghi nel marzo 2022. La seconda, egualmente non nuova ma rafforzata dall’attuale governo, consiste nell’apertura nei confronti degli ingressi dei lavoratori, soprattutto per lavoro stagionale m anche per occupazioni stabili. La terza politica è quella della chiusura verso gli ingressi per ragioni umanitarie. Gli impedimenti frapposti ai salvataggi in mare da parte delle ong, il decreto Cutro con la quasi abolizione della protezione speciale per i rifugiati e la conseguente condanna a una vita di stenti per i richiedenti asilo respinti, ma raramente espulsi, le restrizioni all’accoglienza dei minori non accompagnati, i ripetuti viaggi e gli accordi con il regime tunisino e con quello egiziano, oltre a quelli con la Libia sembrano aver delineato una linea politica a suo modo coerente ma in netto contrasto con l’articolo 10 della Costituzione e le convenzioni internazionali sul diritto di asilo.
In questa cornice si inserisce anche l’accordo con l’Albania e la realizzazione dei centri extraterritoriali per l’esame delle domande d’asilo. Meloni ha parlato di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti ma il fatto che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da paesi classificati come sicurixvi conferma l’intenzione punitiva del progetto. xvii
Il Piano Mattei, nelle intenzioni del governo Meloni, mira a sviluppare economicamente le aree da cui maggiormente origina il fenomeno migratorio, con l’intento di limitarne gli effetti e combattere la tratta internazionale dei migranti irregolari. In Italia, le comunità di migranti africane si sono integrate stabilmente, dando vita a un tessuto associativo ricco e variegato che va dall’integrazione sociale alla promozione culturale. L’emergenza e la crisi scatenata dall’esplosione della pandemia da Covid-19 hanno evidenziato l’importanza del ruolo che giocano le associazioni delle diaspore. Durante i lockdown le associazioni hanno prontamente attivato meccanismi di risposta all’emergenza dovuta all’epidemia, attuando iniziative diversificate nei Paesi in cui operano e affrontando una situazione unica che ha colpito le diaspore due volte: in Europa nei Paesi di approdo e, contemporaneamente, nei loro Paesi di origine. Le diaspore, inoltre, rappresentano una risorsa inestimabile per lo sviluppo economico dei loro Paesi attraverso le rimesse e gli investimenti.
Per Dioma, queste attività non solo migliorano le condizioni di vita ma rafforzano anche le relazioni bilaterali con l’Italia. I membri della diaspora si muovono tra due Paesi e conoscono le condizioni di vita di entrambe le parti. Questa posizione li rende attori chiave nel dibattito sulla cooperazione allo sviluppo. La loro comprensione delle culture, delle dinamiche economiche e delle esigenze e opportunità specifiche di entrambi i contesti li rende particolarmente efficaci nel promuovere progetti di sviluppo che siano culturalmente sensibili e mirati. Il coinvolgimento attivo degli stessi migranti nei processi di sviluppo assicura che le iniziative siano realmente rispondenti alle necessità delle comunità locali xviii e andrebbero attivamente coinvolti nei progetti di cooperazione, anche e soprattutto quelli del Piano Mattei.
Il fenomeno migratorio africano, contraddistinto da particolare intensità e complessità, è favorito dalla prossimità geografica di due Continenti simbolicamente uniti, oppure separati, dalle medesime acque. Il declino di una concezione dello spazio geografico come susseguirsi di distese contigue, dominate da un’enfasi sui confini come sedi di conflitto, con i mari come vuoti; l’estinguersi rapido di un assetto geopolitico che trovava in due “superdistese” la sua semplificata versione globale, ha privato il Mediterraneo di una plurisecolare funzione di diaframma tra due mondi, ha abbattuto (o meglio, reso inutile) una frontiera che è stata caricata di significati di separazione tra mondo moderno e spazi più o meno organizzati della povertà, spazi dei conflitti. La chiave di lettura, in sostanza, è quella di una situazione-regione, rispetto a quella contrastante di regione-situazione (intendendo con la prima il ruolo di semplice spazio attraversato di linee di forza esterne, e per la seconda quello di campo in qualche modo gestito e governato) xix.
I migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una maggiore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ampia. Pensare con la migrazione, andare oltre la superficie fino alle più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige questo nostro mondo.
I migranti, affermando il loro diritto a muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la modalità precaria contemporanea della vita planetaria. È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico xx.
Il discorso sui giovani in Africa, da qualsiasi angolatura lo si intenda imbastire, pone di fronte a complessità di ordine innanzitutto teorico. Da un punto di vista analitico, infatti, la categoria “giovani” applicata all’eterogenea vastità culturale, storica, territoriale, economica e politica del continente africano, costituisce un insieme estremamente denso e composito che interroga fin da subito sul rischio di eccessive generalizzazioni. Oggetto di ricerca, dibattiti e analisi accademiche multidisciplinari, bacino umano di risorse spesso manipolate dall’alto, ma anche fonte di timore per quei governi che mal sopportano l’emergere di nuove coscienze politiche e resistenze dal basso, segmento “vulnerabile” della società destinatario di numerosi progetti di cooperazione, ma anche segmento familiare “forte” su cui si riversano aspettative e responsabilità, la fetta più consistente della popolazione, ma sovente la più esclusa dalle istanze decisionali. Tutto questo e molto altro, i giovani, definiti in termini di categoria, finiscono spesso per slittare da moltitudine di soggettività a oggetto omogeneo, in ragione di quell’appiattimento che in una qualche misura la categoria stessa produce.
In questo senso, pur considerando i tratti che in linea generale accomunano trasversalmente i giovani in Africa, è necessario dotarsi di una visione plurale che tenga conto delle tante gioventù africane e di come esse si collochino nella società. Un aspetto fondamentale è proprio lo spazio peculiare che esse abitano, e cioè quello situato all’intersezione tra modernità e tradizione, tra locale e globale, tra immobilità e mobilità, tra marginalità e centralità. Queste intersezioni, tutt’altro che fugaci punti di contatto, rappresentano snodi vitali, zone di confluenza creativa dove si concentra una produzione incessante di nuovi modelli, nuove relazioni e nuove identità politiche, economiche, sociali e culturali, nonché nuove forme di adattamento a una realtà in continuo fermento e non di rado disorientate. Una produzione che scaturisce da processi di rielaborazione simbolica e risignificazione di luoghi e relazioni di potere da cui emerge quella capacità di aderire plasticamente al cambiamento, ma anche di produrlo in maniera attiva e consapevole. Un elemento, questo, che rompe con la visione di una gioventù statica e passiva che, al contrario, conquista un protagonismo sempre più evidente xxi. Le primavere arabe e i movimenti di contestazione in Africa subsahariana sono l’espressione più evidente della centralità della “questione giovanile” nel Continente.
In qualità di naviganti della globalizzazione connessi con il mondo ma in relazione quotidiana con il proprio territorio di cui sperimentano potenzialità e carenze, anche dal punto di vista del lavoro i giovani vanno considerati come compositori di nuovi modelli. Nel proporre prospettive in base alle proprie esigenze e competenze, visto l’aumento del livello di istruzione a partire dagli anni 2000 in avanti, si dovrebbe innescare anche quel processo di adattamento dei modelli professionali al contesto locale.
La crescita delle città, la nascita della classe media, l’emergere di una società civile forte e dinamica, lo sviluppo economico e politico, la diminuzione dei conflitti sono già realtà in Africa. Realtà che in Italia non vengono pressoché mai raccontate. L’impressione è che il Piano Mattei sia il tentativo di mettere in rete il patrimonio di progetti, relazioni e iniziative che uniscono le due sponde del Mediterraneo. Lo sviluppo dell’Africa è forse la più importante occasione di crescita e sviluppo dell’Italia dal dopoguerra. L’Africa è il posto dove investire perché dispone delle più ricche fonti di energia rinnovabile, di manodopera e risorse. L’area di libero scambio continentale africana è un mercato da 3.400 miliardi di dollari. Nell’analisi di Zaurrini si evidenzia come il Piano Mattei sia necessario più all’Italia che all’Africa.
Negli ultimi quarant’anni l’Italia in Africa ha latitato nel sistema geopolitico, ma non gli italiani. Le aziende italiane sono sempre state presenti e continuano a farlo in numero crescente. Ci sono stati e ci sono i grandi gruppi industriali del settore dell’energia, sia quella classica che quella rinnovabile, quelli delle infrastrutture e delle costruzioni o dell’agroalimentare. Proliferano poi le piccole e medie aziende. Il primo vero problema, per chi opera in Africa o è intenzionato a farlo, sono le difficoltà che si incontrano nel settore bancario o finanziario. Persiste uno scollamento tra un tessuto imprenditoriale fatto soprattutto di piccole e medie imprese che, complice la crisi, si sta rivolgendo sempre più spesso a mercati emergenti, compresi quindi quelli africani, e un sistema Paese – in cui rientrano le banche e le assicurazioni – che ancora stenta a muoversi in direzione sud. Ci sono banche italiane in Nord Africa ma a sud del Sahara sono presenti solo in via indiretta, attraverso filiali di gruppi stranieri che, nel frattempo, hanno acquisito il controllo di istituti italiani.
La scarsa conoscenza dell’Africa e delle sue dinamiche tra gli operatori economici e finanziari, la quasi totale assenza del sistema bancario e finanziario africano sono i principali freni all’esplosione delle relazioni economiche tra l’Italia e il grande continente. Il Piano Mattei deve evitare di cadere nell’equivoco investimento-commercio: le aziende italiane che vogliono investire in Africa non sono tante, quelle che vogliono commerciare sono invece molte ma molte di più. Non può essere un piano di sostegno al commercio italiano se si intende incidere davvero sulle cause profonde di sviluppo economico, politico e sociale del continente africano. xxii
Le aziende italiane, che di sovente si muovono autonomamente e con forte spirito mercantile o avventuriero, devono imparare a fare sistema, uscendo dall’ebbrezza e dall’autocompiacimento di quel Made in Italy pronunciato come fosse un sinonimo planetario di qualità e, troppo spesso, invocato come un passepartout adatto a ogni situazione. xxiii
Al contrario, i concetti di impresa, imprenditore, competitività, gestione del rischio e così via, non sono universalmente interpretabili allo stesso modo, ma sono estremamente fluidi e variegati in base al contesto.
Bisogna tenere ben presente la questione dell’adattamento del concetto di impresa al contesto africano, dove l’economia risponde a criteri di condivisione, di spartizione delle risorse anziché di monopolio, di relazioni familiari e benessere comunitario anziché individuale. L’Africa deve riposizionarsi nel mondo a partire dalle sue specificità, affrancandosi dal rapporto mimetico insano e caricaturale nei confronti dell’Europa e proponendo modernità alternative squisitamente africane xxiv.
Il ruolo che i giovani stanno assumendo nei processi di trasformazione sociale, economica e politica ha una centralità crescente, a dimostrazione di quanto sia fuorviante quell’immobilità che viene loro attribuita come fossero in balia delle privazioni senza possibilità o volontà di reagire. Se da un lato è innegabile che molti giovani africani sono costretti a fare i conti con situazioni di conflitti, povertà e violenza, dall’altro questo non coincide automaticamente con passività e rassegnazione. xxv
Essi rappresentano un insieme eterogeneo che nel quotidiano naviga il concetto di sviluppo nell’era della globalizzazione, incarnandone i paradossi e le potenzialità. Se la gioventù africana fosse vittima dell’esclusione sociale, probabilmente la sua presenza nelle organizzazioni della società civile, nella politica dal basso, nella produzione culturale, artistica e intellettuale non sarebbe così robusta. Per questo motivo, costituiscono una delle voci principali che i decisori politici e gli attori della cooperazione internazionale hanno il dovere di ascoltare. Se uno degli elementi centrali delle politiche di sviluppo è la costruzione di progetti in linea con le peculiarità dei contesti in cui si opera, i giovani sono forse coloro che più sono in grado di far luce sulla dimensione dell’avvenire, sul «futuro come fatto culturale»xxvi, un futuro immaginato attraverso cui si costruiscono strategie di adattamento a partire dal quotidiano.
Da un punto di vista eminentemente pratico, i giovani dovrebbero assumere la posizione di interlocutori principali, dovrebbero cioè essere ripensati come co-costruttori delle politiche per il lavoro, e non soltanto come destinatari. Un processo, questo, che deve inevitabilmente includere anche un ripensamento dei modelli economici su scala locale, non necessariamente dipendente da ciò che l’Occidente intende per modernità xxvii.
La filosofia che sembra prosperare tra i giovani africani è quella della salvezza individuale legata al rifiuto del passato (sia quello tradizionale che quelli coloniale e post-coloniale), al ripudio dei propri leader fallimentari ma anche al rigetto dello straniero. Mai come ora, i giovani africani si concepiscono soli, rivendicando allo stesso tempo la propria libertà e il diritto di accedere al resto del mondo. Sottolinea Giro che uno dei motivi ricorrenti è la collera contro le classi dirigenti africane le quali, mentre mandano i loro figli nelle scuole all’estero, hanno abbandonato il settore educativo, lasciato andare in rovina le strutture scolastiche, non hanno sovvenzionato gli insegnanti rurali e hanno lasciato cadere la sanità.
Talune caratteristiche proprie della società postcoloniale stanno facendo la loro comparsa nei Paesi del Nord, anch’essi alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni identitarie, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. In altri termini la diffusione della democrazia sembra andare di pari passo con l’espansione globale del capitalismo con tutte le sue contraddizioni. La politica, per gli Tswana ad esempio, è in primo luogo una dimensione partecipativa vissuta nel fluire della vita sociale. Non stupisce che, a partire da questa concezione, la democrazia formale di tipo occidentale basata sull’espressione elettorale e sull’alternanza dei partiti al governo risulti insoddisfacente. Come altre società africane dotate già in epoca precoloniale di complesse strutture politiche centralizzate, gli Tswana credono fermamente nel senso di responsabilità che il leader deve alla comunità: un famoso adagio tswana recita kgosi he kgosi ka morafe, «un capo è un capo grazie alla sua nazione». La concezione di politica tradizionale tswana si basa in definitiva su un’idea di democrazia sostanziale, mentre la democrazia formale ottenuta attraverso il voto risulta in questo contesto poco saliente xxviii.
La modernità viene intesa come il mito eurocentrico di una “teleologia universale” caratterizzata dall’idea di un progresso unilineare che l’umanità intera starebbe inevitabilmente perseguendo. Tutte le culture evolverebbero in questa prospettiva attraversando (con ritmi e tempi diversi) vari stadi di sviluppo per raggiungere infine il traguardo della civiltà che contraddistinguerebbe l’età moderna. È evidente come questo impianto concettuale – che si è dimostrato ampiamente congetturale – abbia fornito un alibi scientifico e morale all’espansione coloniale: nel nome dello “sviluppo economico”, della “conversione”, l’Europa potè infatti giustificare la conquista di ampie regioni del mondo xxix. I Comaroff hanno levato con forza la loro voce contrapponendo all’idea eurocentrica di una modernità universale l’immagine di modernità multiple o alternative. L’agency africana, come quella di altre culture extraeuropee, ha dato vita a forme di modernità differenti, risultato dell’incontro tra le identità locali e i processi globali innescati dal colonialismo. Declinare la modernità al plurale, mettendo in discussione la presunta unidirezionalità Nord-Sud dei flussi di idee, è dunque il presupposto della proposta controevoluzionista analizzata dai Comaroff.
Sorge a questo punto spontaneo un quesito: nei programmi come il Piano Mattei c’è davvero la volontà di una cooperazione basata sul reciproco rispetto di idee e risorse da ambo le parti istituzionali?
Mario Giro sottolinea come il tema della cooperazione tra Italia e Africa sia stato, negli anni, molto altalenante. La scommessa del Piano Mattei è quella di superare tale limite creando una vera e propria azione sistemica che duri nel tempo. La frattura tra Occidente e Africa, segnatamente con la Francia in Africa occidentale, rende tale compito arduo. Nei recenti colpi di Stato continentali si è visto bruciare bandiere francesi e alzare quelle russe. Sono scene del Mali o del Burkina Faso e infine del Niger. Si tratta di una rottura definitiva con l’Occidente? Lo si è visto anche nei ripetuti voti alle Nazioni Unite dove il continente si è spaccato sulla condanna alla Russia. Più ancora nel caso della guerra a Gaza: l’Africa intera si è schierata con i palestinesi quasi spontaneamente. Una rottura sentimentale che si allarga all’Europa intera. Una rivolta del Sud globale.
La caduta del sistema della guerra fredda ha rappresentato la fine delle ideologie contrapposte. Al loro posto c’è stato l’avvento delle identità e/o emozioni, di per sé molto volubili. Le relazioni tra gli Stati e i popoli sono ormai rette da una “geopolitica delle emozioni”, le più significative tra le quali sono la speranza, l’umiliazione (e il rancore a essa connesso) e la paura (del declino). Per le nazioni e le classi politiche tali emozioni non si fermano al sentimento ma si trasformano in cultura e programmi partitici. Nella post-globalizzazione tutti si sentono al medesimo tempo nativi ed estranei: di conseguenza più o meno spaesati xxx. È ciò che stanno vivendo i giovani africani: ogni punto di riferimento è scomparso. Tutto è in grande e generale rimescolamento.
Anche l’Europa è in continuo rimescolamento. Di fronte alle nuove dinamiche mondiali i singoli Stati europei sono destinati a perdere progressivamente peso politico ed economico se non sapranno conciliare la visione nazionale e intergovernativa con la visione federale. Solo un’Unione sempre più federale, capace di valorizzare l’insieme delle specificità nazionali, può infatti riuscire ad avere un reale e forte peso politico ed economico e conquistare una credibilità globale che nessun singolo Stato europeo potrà mai avere. Anche nel rapporto con l’Africa. Proprio mentre l’Unione Europea sta prendendo consapevolezza di avere bisogno dell’Africa, come e forse più di quanto essa abbia bisogno dell’Europa nei prossimi decenni, vari Paesi africani stanno già guardando ad altri continenti e altre aggregazioni geoeconomiche. E allora quali sono il senso e le reali potenzialità del Piano Mattei dell’Italia in una Europa ancora divisa?xxxi
Le ambizioni italiane verso il continente africano sembrano misurate, sebbene reali. Per certo differenti da quelle francesi. Le relazioni tra Francia e Africa hanno un’anzianità e un ancoraggio impossibile da confrontare a quelle italiane ma un corrispondente Piano Foccart riporterebbe Parigi ai suoi demoni, ovvero a una Françafrique a cui cerca di sfuggire con ogni mezzo. Argomento tabù, perché sfruttata abusivamente e caricaturalmente a fini elettorali, mai del tutto assunta come consapevolezza collettiva e nazionale, la “responsabilità” francese di ex potenza colonizzatrice deve tornare a essere, secondo l’analisi di Emmanuel Dupuy, una forza e non un ostacolo in vista di un rapporto pacificato. Il nodo gordiano del rapporto reciproco tra Francia e Africa francofona è l’ignoranza delle storie reciproche. Indubbiamente è ora opportuno agire, in un primo momento privilegiando il principio di “equità” piuttosto che quello di “uguaglianza” nelle relazioni transcontinentali e/o bilaterali riequilibrando un rapporto asimmetrico nel quadro di un dovere di imparzialità. xxxii
Germania e Italia sono sempre riuscite a mantenere un maggiore equilibrio nelle relazioni con il continente africano, nonostante o forse proprio perché la durata della “loro” colonizzazione è stata più breve e meno incisiva di quella francese.
Cosa significa allora cooperare con l’Africa tra pari, in maniera non predatoria né paternalistica?
Per Sergi, pur essendo un piano “non calato dall’alto” ma definito da una “piattaforma programmatica condivisa”, non traspare ancora quale sia il radicale cambiamento rispetto a quanto l’Italia e l’Europa hanno realizzato con le iniziative di cooperazione internazionale. Il documento trasmesso al Parlamento italiano il 17 luglio 2024 non esprime né una nuova visione strategico-programmatica né le modalità di condivisione con i Paesi africani, elemento fondamentale nella relazione tra pari. È indispensabile che quanto prima siano chiarite le concrete modalità di governance e siano definiti obiettivi con criteri di valutazione misurabili, a partire da quelli dell’Agenda 2030, assicurando trasparenza e coerenza all’intero processo decisionale, attuativo e valutativo.
Sono tante le ragioni che spingono alla costruzione di solidi rapporti tra i due continenti e alla definizione di un comune cammino di sviluppo e progresso. Lo richiedono le incertezze di un mondo a geometria variabile, che ha perso la bussola delle istituzioni politiche multilaterali nate dopo le divisioni e gli orrori delle due guerre mondiali e che, in larga parte, tende a rifiutare l’attuale “ordine” internazionale, non corrispondente ai mutati equilibri di potere, alle esigenze di maggiore equità, al riconoscimento di regole condivise, al rispetto della dignità altrui. Lo richiede l’interesse a stabilire solide collaborazioni per l’acquisizione di materie prime indispensabili alle produzioni industriali e alla transizione energetica. Lo richiede una visione politica illuminata capace di guardare lontano e costruire un sicuro e duraturo reciproco vantaggio. xxxiii
Forse la strada da seguire è quella che condurrebbe a una cooperazione triangolare tra America Latina, Italia e Africa. Coinvolgere partner di regioni extra-europee rende l’iniziativa più inclusiva e per molti aspetti più accettabile, se non altro perché in molti casi può scattare un sentimento di maggiore vicinanza, comprensione di problemi e capacità di condivisione delle soluzioni. Tra America Latina e Africa esistono vincoli storici fortissimi, un legame di sangue e di cultura certamente non inferiore né meno antico rispetto a quello esistente con l’Europa. In America Latina inoltre vi è un sentimento di particolare vicinanza all’Africa, rafforzato dalla scelta di molti governi attuali di garantire il rispetto dei diritti e la piena inclusione sociale degli afro-discendenti in quasi tutti i Paesi del subcontinente.
Il modello di cooperazione triangolare non si basa solo sullo scambio di risorse e conoscenze, ma anche sulla necessaria costruzione di relazioni più forti e durature tra governi, imprese, società civile, in grado di assicurare continuità e sostenibilità al processo di crescita delle nazioni coinvolte.
La fiducia generata da una comunicazione aperta e trasparente, che porta i partner a identificare aree di collaborazione di interesse reciproco e a sviluppare progetti congiunti a beneficio di tutte le parti coinvolte, contribuisce senza dubbio al benessere collettivo ma, promuovendo il dialogo tra attori con punti di vista e prospettive diverse, contribuisce anche a rafforzare la solidarietà politica e il sostegno reciproco nelle sedi internazionali a vantaggio di una maggiore stabilità xxxiv.
Note
iMcKinsey Global Institute, Lions on the move: The progress and potential of African economies, June 2010.
iiPaul Collier, The Bottom Billion: Why the Poorest Countries are Failing and What Can Be Done About It, OUP USA – Oxford University Press, New York City, 2008.
iiiCarlos Lopes,L’Afrique est l’avenir du monde, Seuil, 2021.
iv* membro della Comunità di Sant’Egidio, amministratore di Dante Lab, sottosegretario agli esteri nel governo Letta, viceministro degli Esteri nei governi Renzi e Gentiloni, docente di relazioni internazionali all’Università per Stranieri di Perugia.
vL’inaugurazione di questa nuova fase nei rapporti con il Continente africano ha avuto luogo in occasione del “Vertice Italia-Africa” del 29 gennaio 2024, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di 46 Nazioni africane, oltre 25 Capi di Stato e di Governo, dei tre Presidenti delle Istituzioni europee, dei vertici delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, delle Organizzazioni internazionali, delle Istituzioni finanziarie e delle Banche multilaterali di sviluppo.
viiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
ixBarbara Bruschi, Micro-credenziali e NOOC potranno contrastare l’inverno demografico nelle Università? In Qtimes – Journal of Education Technology and Social Studies, luglio 2024.
xUmberto Galimberti, La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2018.
xiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.
xiiAll’inizio degli anni Ottanta il mondo della cooperazione allo sviluppo assistette a una ridefinizione delle strategie che avevano dominato le decadi precedenti. Le Istituzioni Finanziarie Internazionali – in particolare la Banca Mondiale – ritennero che un’eccessiva presenza dello Stato nell’economia dei paesi dell’Africa sub-sahariana fosse una delle cause primarie della crisi e formularono programmi di aggiustamento strutturale che miravano a rimuovere i principali limiti alle potenzialità di sviluppo del continente. Ne è derivata una lunga ondata di liberalizzazioni che colpirono molti servizi pubblici e programmi statali inducendo quello che è stato definito come il disimpegno dello Stato.
xiiiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.
xivStefania Tusini, Alcune domande (e risposte Data-Based) su migrazioni, accoglienza e identità, in Maura Marchegiani (a cura di), Antico mare e identità migranti: un itinerario interdisciplinare, Giappichelli Editore, Torino, 2017.
xvRenzo Guolo, Modelli di integrazione culturale in Europa, paper presentato al Convegno «Le nuove politiche per l’immigrazione. Sfide e opportunità», Fondazioni Italianieuropei e Farefuturo, 2009.
xviCon il decreto legge del 22 ottobre 2024 il governo ha inserito 19 paesi nella lista dei paesi sicuri (Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Tunisia). Sono rimasti fuori la Colombia, il Camerun e la Nigeria. Va aggiunto che l’Unione Europea, e diversi governi europei, in questa fase mostrano una progressiva convergenza con le posizioni del governo Meloni. Il 16 aprile 2025 la Commissione ha presentato l’elenco UE dei Paesi di origine sicuri che comprende, tra gli altri, anche Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco, Tunisia.
xviiMaurizio Ambrosini, Tutte le contraddizioni del governo Meloni sulle politiche migratorie, lavoce.info, 25/10/2024.
xviiiCléophas Adrien Dioma, Il ruolo delle diaspore africane nel Piano Mattei, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xixGiuseppe Campione, Migrazioni Mediterranee, in Antonietta Pagano (a cura di), Migrazioni e identità: analisi multidisciplinari, EdiCusano – Edizioni dell’Università degli Studi Niccolò Cusano – Telematica Roma, 2017.
xxIain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e Identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi Editore, Sesto san Giovanni (Milano), 2018 (edizione originale: Migrancy, Culture, Identity, Routledge, Londra, 1994).
xxiMarta Mosca, Giovani e lavoro in Africa: ripensare le categorie e i panorami futuri. Una prospettiva antropologica, in JUNCO – Lournal of Universities and international development Cooperation, n. 1/2020.
xxiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xxiiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, op.cit.
xxviiiJean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo. Ovvero come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, 2019 (I Comaroff sono partiti dallo studio etnografico di un’area remota ai confini tra il Botswana e il Sudafrica e hanno percorso un lungo viaggio di ricerca che li ha portati a sviluppare una teoria dei processi globali di produzione della conoscenza e del ruolo che l’antropologia e gli studi africani possono svolgere nella contemporaneità).
xxixJean Comaroff and John L. Comaroff (edited by), Modernity and Its Malcontents. Ritual and Power in Postcolonial Africa, The University of Chicago Press, Chicago, 1993.
xxxDominique Moïsi, Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell’umiliazione e della speranza stanno cambiando il mondo, Garzanti, Milano, 2009.
xxxiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, op.cit.
xxxiiEmmanuel Dupuy, C’è bisogno di un «Piano Mattei» francese per ridefinire il rapporto tra la Francia e il continente africano?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xxxiiiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
xxxivAntonella Cavallari, La cooperazione triangolare: possibili sinergie tra America Latina, Italia e Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.
Irma Galgano, laureata in Lettere, indirizzo geografico-antropologico, è docente per le classi di concorso A012, A018, A019, A021, A022, A054. Formatore e Supervisore EIPASS, docente esperto nei percorsi di orientamento e formazione per il potenziamento delle competenze STEM, digitali e innovazione, collabora con varie riviste.
Articolo pubblicato sul numero 75 di Dialoghi Mediterranei, rivista scientifica per le aree disciplinari 10 e 11 (delibera Anvur n. 110 del 11-05-2023, con decorrenza dal 2018), link all’articolo: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lafrica-i-giovani-litalia/
Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa di Edizioni Angelo Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com
Jasmine Faizal, dicissettenne di origini marocchine, viene trovata morta nella vasca di un vecchio lavatoio a Verbania. A indagare è Rosa Spini, giovane magistrata determinata a scoprire la verità. Ma il caso riapre una ferita profonda: la morte della sua migliore amica, Chiara, negli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Mentre l’indagine prende piede, il clamore mediatico travolge Rosa, mettendo a nudo il suo passato e facendola finire sotto accusa. Affiancata dalla medica legale Barbara e dal giornalista Berna, Rosa dovrà confrontarsi non solo con i propri demoni interiori, ma anche con le complesse dinamiche di una comunità lacerata dalla paura e dal pregiudizio.
Nel romanzo di Maria Elisa Gualandris ci sono tante storie di donne che si incontrano, si intersecano, si tagliano e si stagliano come rette su di un piano. Sono esistenze che nascondono segreti, misteri, dolori, sentimenti, desideri, aspirazioni, ambizioni. Destini che si intrecciano alla vita. Vite spezzate dal destino. Un destino spesso deviato dall’agire umano. Come per la morte di Jasmine e Chiara.
Il fulcro dell’intero romanzo è la protagonista, Rosa, una donna forgiata dalle difficoltà che ha dovuto affrontare, dai dolori e dalle perdite che ha dovuto superare, dai sensi di colpa e da quelli di inadeguatezza che derivano, per la maggiore, dalla madre. Donna forte e sicura di sé non è riuscita a trasmettere la stessa sicurezza nella figlia, che invece sembra arrancare nel tentativo di mantenere il passo. I danni emotivi sono evidenti nel comportamento come nei pensieri di Rosa. Angoscia esistenziale che si trasforma in bulimia alimentare.
Un ulteriore e potentissimo trauma che Rosa deve affrontare è l’aggressione subita durante l’attentato al Bataclan di Parigi. Sopravvissuta si ritrova a dover convivere con i sensi di colpa per la morte della sua migliore amica. Il dover indagare sull’omicidio di Jasmine e avvicinarsi quindi alla comunità degli immigrati musulmani è una ulteriore durissima prova. Il lavoro richiede che rimanga distaccata e professionale, la mente è tormentata da emozioni e ricordi. I sentimenti contrastanti diventano pugni in faccia e allo stomaco per la giovane magistrata.
Durante le indagini per l’omicidio di Jasmine, Rosa dovrà fare i conti con i propri fantasmi ma anche con numerosi ostacoli derivanti, o comunque dipendenti, dal comportamento delle persone che la circondano, inondandola di paure e timori che in lei diventano ricordi, ingerenze che la fanno vacillare ma non cadere.
Il libro scritto da Gualandris è un noir psicologico. L’autrice lascia la protagonista indagare sul delitto ma l’intero libro sembra costruito sull’analisi della psiche della stessa Rosa. La narrazione di un crimine violento attraverso il filtro sensibile di una mente umana provata da traumi plurimi. La magistrata riesce a trovare la giusta strada per la risoluzione del caso ma questo, a tratti, sembra addirittura secondario rispetto all’indagine che l’autrice deve aver compiuto per creare il personaggio di Rosa Spini.
La paura è un’emozione. E il trauma derivante da una forte paura è una forte emozione per l’animo umano. Rosa è una traumatizzata in questo senso e, prima ancora di risolvere il delitto, deve fare i conti con il proprio essere. Sarà poi proprio la consapevolezza del delitto a porla dinanzi a delle scelte che apriranno un varco anche all’interno del proprio trauma, dentro se stessa.
Indagando all’interno della comunità marocchina, Rosa riesce ad aprire uno squarcio anche per la comprensione del proprio trauma. Ciò naturalmente non potrà mai cambiare quanto accaduto ma la aiuterà a comprendere alcune dinamiche che le torneranno utili anche nell’indagine per l’omicidio di Jasmine. Soprattutto, l’aiuteranno a riscoprire una forza che credeva di non possedere o di non possedere più. Una determinazione che sarà determinante, per l’indagine certo ma anche per il suo essere.
A tratti, il libro di Gualandris si mostra al lettore quasi come una sorta di manifesto per la libertà femminile, in tutte le sue forme e contro tutte le forme di oppressione e limitazione. Una sorta di inno alla rivoluzione.
Il libro
Maria Elisa Gualandris, Solo il buio, Morellini Editore, Milano, 2025.
Fedor ha sedici anni, in giro lo chiamano il River Phoenix di Inganni, quartiere della periferia ovest di Milano. Insieme ai suoi amici, il Moro e Leo, si preparano a girare un video hip-hop per una rapper loro coetanea. Si esercitano, sperimentano, s’improvvisano attori sotto la regia marziale del Moro, in fissa con il cinema e la recitazione. Fedor, però, ha anche una vita che nessuno conosce: mentre accudiva la madre ha scoperto il Fentanyl, e ne è diventato dipendente. Sempre a corto di soldi, viene introdotto in un giro di appuntamenti dove uomini adulti pagano giovani adolescenti per inscenare incontri in cui possono diventare altro da sé.
Il libro di Placido Di Stefano è davvero il racconto spietato di cosa significhi diventare adulti crescendo ai margini del mondo contemporaneo.
I grandi cambiamenti che hanno attraversato la società a partire dagli anni Ottanta hanno profondamente alterato il percorso biografico “standard”. A seguito delle numerose e profonde trasformazioni dell’assetto sociale, il corso di vita – l’ordine e la durata con cui le fasi della vita si susseguono – è stato interessato da un progressivo processo di “fluidificazione”, che ha reso meno netto il passaggio da una fase all’altra. Il passaggio dalla gioventù all’età adulta, in particolare, ha assunto caratteristiche del tutto nuove. Quelle che erano le tappe tradizionali del percorso che conduce dalla condizione di giovane a quella di adulto (conclusione degli studi, inserimento stabile nel mercato del lavoro, autonomia abitativa, matrimonio e genitorialità), infatti, oggi non solo sono più distanti fra loro, ma seguono un ordine cronologico irregolare e sono spesso caratterizzate da un’alternanza di passi in avanti e passi indietro.1
Anche Fedor è una vittima di drastici cambiamenti, familiari più che sociali, che lo hanno costretto ad abbandonare il suo essere giovane e spensierato. Responsabilità e dolore lo hanno trascinato in un vortice troppo forte da gestire da solo. Il brutale e precoce passaggio all’età adulta porta Fedor non tanto all’effetto yo-yo tra le fasi della vita quanto alla creazione di tanti sé. Ruoli da interpretare nei vari momenti della sua esistenza.
Il Fentanyl è un oppiode sintetico cento volte più potente e tossico della morfina, conosciuto anche come “droga degli zombie”. Negli Usa è stato responsabile di 74mila morti nel 2023. È un problema che riguarda anche Europa e Italia. Dal 12 marzo 2024 è scattata l’allerta di terzo grado in Italia per la sempre maggiore diffusione nelle piazze di spaccio di questa sostanza.2
L’essersi avvicinato alla droga e la tossicodipendenza che ne è derivata, con la conseguente sempre maggiore necessità di soldi, trascina Fedor in profondità sempre più buie della marginalità sociale.
Sono numerosi gli aspetti contorti e complessi della società odierna che l’autore indaga nel libro, e lo fa attraverso il racconto delle storie dei protagonisti. Di Fedor ma anche dei suoi amici. Le varie sfaccettature dell’adolescenza, soprattutto quelle più cupi e tristi, vengono mostrate al lettore in tutta la loro brutale realtà. E verità. Perché il mondo racconto da Di Stefano è reale. O realistico. Nel senso che esiste davvero, anche se i suoi personaggi sono inventati.
Fedor porta questo nome per ovvia volontà di sua madre, nome scelto anche per omaggiare uno dei più grandi autori di ogni epoca letteraria.
E allora la mente non può non andare a L’adolescente di Fëdor Dostoevskij. Pur nella differenza della costruzione delle rispettive storie, dello stile e delle motivazioni che hanno portato gli autori a scrivere, si ritrova in GAP la medesima narrazione di una gioventù inquieta e sradicata. Egualmente si ritrova nel libro di Di Stefano quella vertiginosa sequenza di fatti, quel turbine di avvenimenti intensi e, per certi versi assurdi, che si leggono nell’opera di Dostoevskij. Entrambi i libri, entrambe le storie per certo rispecchiano l’epoca in cui sono state scritte. I due protagonisti agiscono in mondi diversi e in maniera differente ma sono entrambi mossi da una comune volontà di riscatto. Meno evidente nel libro di Di Stefano perché Fedor sembra annichilito dalla droga, interessato solo a procacciarsi i soldi per la dose di Fentanyl. Ma è finzione. Una messa in scena. Una recita. Tutti stanno recitando. Anche i suoi amici. E lo fanno non soltanto sul set del video che stanno registrando. Lo fanno nella quotidianità perché è l’unico modo che sono riusciti a trovare per “inventarsi” la vita che desiderano, che immaginano, che vorrebbero. L’autore racconta di una generazione che volentieri butterebbe la maschera che, in un certo qual modo, è costretta a indossare. Ne farebbe volentieri a meno se riuscisse a trovare la soluzione. Se avesse una guida. Esattamente come accade nel romanzo di Dostoevskij: se avesse avuto la guida sicura del padre tanto cercato forse Arkadij non avrebbe commesso gli errori e le imprudenze che ne hanno determinato il cammino. O, forse, le avrebbe commesse egualmente.
Ed è proprio questo il punto su cui il libro di Placido Di Stefano sembra voler far convergere l’interesse del lettore: la difficoltà di ridurre semplicisticamente la condizione esistenziale di coloro che crescono ai margini della società in un riduttivo o tutto bianco o tutto nero. Mostrandogli invece il grottesco adolescenziale periferico in tutta la sua complessità.
Il libro
Placido Di Stefano, GAP. Grottesco Adolescenziale Periferico, Neo. Edizioni, Castel Di Sangro (Aquila), 2025.
1A. Spanò, Gioventù e adultità nella società contemporanea: riflessioni sul dibattito suscitato dai cambiamenti del corso di vita, in Quaderni di Sociologia, n. 80 | 2019.
2Allarme Fentanyl anche in Italia: da Consulcesi Club gli strumenti per riconoscere e contrastare le nuove droghe, in quotidianosanita.it, 6 dicembre 2024.
Con Manomissione Domenico Conoscenti accompagna il lettore a conoscere e indagare non solo il delitto compiuto nel suo romanzo ma un intero trentennio di un paese che ha visto più volte vacillare la sua democrazia, la libertà e le conquiste sociali che si credevano ormai radicate.
Si riconoscono nel testo diversi eventi realmente accaduti. Ma il libro di Conoscenti non è una rievocazione storica in senso stretto. Non viene compiuta un’indagine sui fatti reali bensì si parte dalle personali riflessioni dell’autore per immaginare un mondo, un paese in cui questi fatti potrebbero accadere, o sono accaduti, e se ne raccontano gli sviluppi.
L’autore sembra aver compiuto un cammino del tutto analogo a quello che il flâneur faceva per la città, ma adattandolo al sistema paese. Attraverso l’indagine critica dei contesti urbani, il flâneur riusciva a elevarli a simbolo della complessità dei fenomeni antropologici1, esattamente come ha fatto Conoscenti, il quale, attraverso il racconto delle vite dei protagonisti, racconta la storia di un paese intero. E viceversa. Raccontando il globale, l’autore riesce a illuminare il particolare. E così l’intreccio delle vicende risulta essere quello che deriva dall’incontro / scontro tra le varie esistenze individuali e i grandi sistemi che vanno a comporre, a muovere, a deviare la democrazia.
Alla base di tutto ci sono le relazioni umane, sentimentali, tra i protagonisti. Un intreccio che parte dei sentimenti, abbraccia la sfera professionale e arriva fino alle profondità più oscure dell’animo umano. La relazione tra Leonardo e il compagno, tra Diego e la fidanzata, il rapporto padre-figlio di Demetrio fanno da preludio al racconto dell’indagine sul crimine commesso ma, soprattutto, sono l’input per il racconto sociale e politico di un intero paese soggiogato dalla violenza.
Kerr ne La notte di Praga scrive: «quando la legge e il male sono una cosa sola, la ricerca della verità è un valzer lento con la follia»2. La pagina di storia recente che il libro di Conoscenti riporta alla mente è molto triste. Una manifestazione, una ribellione, una rivolta, la carica della polizia. Tanta violenza. Il tema è molto delicato. Conoscenti ha scelto di raccontarlo attraverso l’esperienza diretta di alcuni dei suoi protagonisti che hanno partecipato alla manifestazione. Persone che hanno vissuto e subito un forte impatto con la violenza. E questo li ha cambiati. Esattamente come accade anche sul fronte opposto. Militari, soldati, forze di polizia che, quotidianamente, affrontano situazioni di violenza, anche estrema, non possono non subirne le conseguenze. Si trasformano. Avviene forse una sorta di processo di disumanizzazione, che è anche un meccanismo di autodifesa. Per andare avanti. Per poter andare avanti. Nietzsche diceva: «Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro»3.
È evidente che l’aver guardato l’abisso, rappresentato dagli eventi accaduti nel trentennio storico considerato, ha cambiato i protagonisti del libro ma deve aver lasciato il segno anche sull’autore che ha scelto un meccanismo non molto usato, ovvero la discronia. Gli eventi narrati da Conoscenti hanno avuto luogo in un arco temporale lungo eppure egli sceglie di “avvicinarli” tutti lungo la linea del tempo in modo tale che risultino prossimi ai suoi protagonisti e alle loro personali vicende., il tutto con un realismo immaginario davvero notevole. È evidente la volontà dell’autore di inserirli nel testo perché importanti, in qualche modo. Conoscenti è riuscito poi anche a farli sembrare necessari, in quanto la narrazione delle vicende personali dei protagonisti, potendo includere in questo anche il delitto, non avrebbero lo stesso significato senza la contestuale narrazione di questi eventi “globali”.
Non si riesce agevolmente a inserire il libro di Conoscenti in un genere ben definito. Ma questo, in realtà, non ha alcuna importanza. Romanzo, distopico, noir, thriller, poliziesco: Manomissione non ha i tratti di nessuno di questi generi eppure è tutto questo messo insieme. Non un melting pot ma un qualcosa che va oltre il genere singolo. Quasi come se per esistere avesse contaminato tutti i generi, li avesse “manomessi”. Esattamente come accade alle vite dei protagonisti del libro.
Per certo ad essere “manomessa” è stata l’esistenza di Gaetano, compagno di Leonardo, brutalmente malmenato durane la Manifestazione da Diego, il cui cadavere verrà rinvenuto proprio accanto a Leonardo. Durante il periodo in cui ha prestato servizio in polizia, Diego si è sempre distinto per la violenta omofobia. Una maschera costruita per nascondere la sua repressa attrazione per gli uomini. Leonardo, invece, è un insegnante che non si nasconde dietro una maschera. Degradato sul posto di lavoro proprio per la sfrontatezza nel non voler tenere segreto il suo essere. Due aspetti del medesimo degrado sociale indagati a fondo da Conoscenti. Ed ecco allora che il lettore si chiede se sia mai davvero accettabile per una società civile tutto questo.
I personaggi pirandelliani spesso sono sconfitti dall’alterità, perché nell’altro essi vedono riflessa la propria inconsistenza, il divario tra ciò che pensavano di sé e ciò che sono. La comprensione di sé e degli altri è un processo continuo, contraddittorio e intrinsecamente conflittuale, ma in Pirandello ha un carattere assolutamente distruttivo, perché la forma cerca di imbrigliare la vita attraverso le maschere, le quali non lasciano mai impunito chi si ribella a esse, ma lo ripagano con la reificazione o la pazzia.4 Nel libro di Conoscenti le maschere sembrano assumere un significato differente e la vita, nonostante tutto, vince sulla forma.
Manomissione è un invito a indagare oltre, sempre più in profondità, tra le pieghe del male e delle ingiustizie, non tanto per ritrovare un’umanità che deve pur esserci stata in passato, bensì per crearne una nuova, che diventi la coscienza collettiva della società di oggi.
Il libro
Domenico Conoscenti, Manomissione, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2025.
1F. Governa, M. Memoli, Geografia dell’urbano. Spazi, politiche, pratiche della città, Carocci Editore, Roma, 2011.
2P. Kerr, La notte di Praga, Piemme, Milano, 2013.
3F.W. Nietzsche, Detti e Intermezzi, quarto capitolo di Al di là del bene e del male.
4C. Gnoffo, Pirandello e la disintegrazione del sé sociale come ribellione alle maschere, in Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024.
E se tutte le teorie del complotto servissero solo per nascondere l’esistenza di un unico, grande complotto? E se il viaggio nel tempo fosse possibile, e i centri per l’impiego trovassero il modo di rimandare nel passato i disoccupati per trovare loro lavoro? Questi sono gli interrogativi da cui Luca Giommoni è partito per costruire la storia di Nero, un giovane disoccupato e grande esperto di complotti il quale, nel tentativo di rimediare alle storture del presente dovrà affrontare le kafkiane difficoltà degli organi di controllo burocratici.
La quasi totalità dell’opera di Kafka è incentrata sul senso dell’esistenza dei singoli uomini e della società. E dunque sull’ideale di giustizia, contrastato dall’ingiustizia reale, spesso ammantata di strutture legali. L’opera di Luca Giammoni sembra rifarsi proprio a questa volontà di narrare le storture del proprio tempo che portano i protagonisti in un multiverso contorto e deformato dove tutto viene controllato, revisionato, distorto. Una forma di controllo che rimanda il lettore a scenari cinematografici visti in opere quali Matrix.
Nel ‘900 narrato da Kafka la solitudine è una categoria esistenziale privilegiata. Forte è il senso di solitudine degli individui ormai catapultati in una “società di massa” dentro la quel perdono ogni riferimento.
Lo stesso accade agli uomini del romanzo di Giommoni. Individui persi in una società consumistica e capitalistica nella quale tutti sembrano correre sempre più velocemente verso il nulla più profondo. Chi non è produttivo agli occhi della società scompare ma non Nero, no, lui scompare davvero.
La prima parte del romanzo è di un tale realismo da apparire quasi crudele. Giommoni accompagna il lettore in un percorso a metà tra la conoscenza e la tortura e gli mostra un lato oscuro della società di oggi, quello che più fa paura ai “persi”, ovvero i nuovi vinti di verghiana memoria. I centri per l’impiego, la disoccupazione a trent’anni, i disagi di un mondo del lavoro che lavoro non riesce a dare. Ma il percorso è solo all’inizio. L’autore trasforma la scena continuamente con drastici cambi e l’uso copioso di analessi e flash-forward che, letteralmente, trascinano il lettore nello spazio e, soprattutto, nel tempo. Il tutto a tratti appare quasi un gioco al massacro ma non è così, si tratta solo e semplicemente di fantascienza.
Attraverso scenari e situazioni fantascientifiche l’autore compie un’accurata critica all’odierna società, toccando sia il piano sociale che quello politico. In particolare, tutto l’impianto narrativo sembra costruito intorno a un aspetto peculiare della narrazione attuale: i complotti. Oggigiorno questi sono tanto odiati quanto amati e, soprattutto, impiegati per deviare il flusso di idee e consensi. Nel romanzo di Giommoni il complotto è parte della stessa società, è assoluzione, autoassoluzione, conforto per i personaggi. L’esistenza dei complotti li aiuta a deresponsabilizzarsi, perché la colpa di ciò che accade non può essere imputata a loro, bensì a quell’entità astratta che tira le fila del viver di tutti.
Le tante storie narrate nel libro, unite dal filo conduttore della storia di Nero, pur nell’irrealismo del fantascientifico, finiscono per diventare il grandangolo che indaga l’attualità e la mostra al lettore illuminandone pregi ma, soprattutto, difetti, carenze, oscenità.
Nero di Luca Giommoni è per certo un romanzo con una struttura e una scrittura particolari, ma ben architettato. Che funziona soprattutto perché l’autore ha saputo trasportare nel presente tutti gli insegnamenti di grandi maestri del Novecento, Kafka in primis, ma anche grandi esponenti della letteratura d’oltreoceano come Kurt Vonnegut, rendendoli non solo attuali ma necessari.
Il libro
Luca Giommoni, Nero. Il complotto dei complotti, effequ, 2024.
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