Andrea Prencipe, Massimo Sideri, Il visconte cibernetico

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«Nell’universo infinito della letteratura s’aprono sempre altre vie da esplorare, nuovissime e antichissime, stili e forme che possono cambiare la nostra immagine del mondo… ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta.»

(I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano, 1988)

Calvino ha descritto come indispensabile l’integrazione tra letteratura e scienza per raggiungere la completezza necessaria per l’interpretazione del presente. Con Il visconte cibernetico gli autori mettono l’insegnamento di Calvino alla prova della tecnologia, in particolare dell’intelligenza artificiale e delle sue implicazioni. 

Per Maria Chiara Carrozza, che ha curato la prefazione, il libro rappresenta una guida essenziale per viaggiare nel tempo e, partendo dal passato, dal Metodo Calvino e dalle sue chiavi di lettura, aiuta a interrogarsi su quale possa essere il nostro ruolo nelle crisi che stiamo attraversando.

Oggi viviamo un’epoca di grandi transizioni, in parte legate alle scoperte scientifiche e alla loro trasformazione in tecnologie dalla portata innovativa dirompente, come l’ingegneria genetica o l’intelligenza artificiale. Quest’ultima emula abilità cognitive un tempo ritenute esclusivamente umane, suscita interrogativi profondi e addirittura spaventa, secondo Carrozza, laddove non sia compresa e analizzata con competenza. 

D’altra parte, il rapporto stesso della specie umana con il pianeta sembra profondamente in crisi, non solo per le grandi diseguaglianze fra aree geografiche e sociali, ma anche per l’incombente cambiamento climatico che mette in discussione il modello di equilibrio sul quale finora si sono fondati il paradigma del capitalismo, la ricerca dell’efficienza, l’economia di sfruttamento e la comunicazione di un progresso infinito. 

I principi fondanti del Metodo Calvino, ovvero l’intreccio fra opposte tendenze e il pensiero divergente, sono le basi per affrontare il cambio di paradigma delineato ne Il visconte cibernetico, con una piena fiducia nelle capacità umane di elaborare creativamente le infinite visioni dei futuri possibili. 

Prencipe e Sideri sottolineano come siamo diventati una società sbilanciata sulla “cultura della risposta”. Nessuno mai come Calvino ha ragionato sul ruolo della scrittura e, dunque, sul rapporto indistricabile tra domanda e risposta e sulla relazione della scrittura con la tecnologia. Siamo diventati appendici delle macchine come ne Il cavaliere inesistente, allegoria dell’uomo schiavo dei processi formali e produttivi, prigioniero a tal punto della sua armatura da esserne svuotato. Siamo appesi al flusso immateriale delle informazioni, a una memoria più che a una vera intelligenza artificiale. Poniamo domande. Attendiamo risposte. Ieri era Google o Wikipedia. Oggi è ChatGPT. 

E allora gli autori si domandano quale possa o debba essere davvero la più grande paura dell’uomo: demandare ogni risposta a presunte intelligenze o rischiare di perdere la capacità di formulare le domande giuste?

Le macchine per comprendere hanno bisogno di categorizzare: ironia creatività buono cattivo bianco nero telefono aragosta. Ma cosa succede allorquando Salvador Dalì crea un telefono a forma di aragosta? Se la cultura è una semplice combinazione infinita di lettere, il mistero delle lettere prime, impenetrabile come i numeri primi, saranno la linea di difesa tra algoritmi probabilistici e la storia improbabile dei sapiens. Attributo geloso dell’umano, l’ars interrogandi, ovvero la capacità e la volontà di porsi delle domande, che è poi la base della ricerca scientifica, è la sfera in cui possiamo dispiegare al meglio la nostra creatività. In una società sempre più attratta dalle risposte semplici e dalle fake news e sempre più permeata dall’intelligenza artificiale, viene suggerito di preservare il potere e la responsabilità di decidere e pensare le domande più creative perché, se le risposte possono essere articolate mediante strumenti di intelligenza artificiale, le domande sono e resteranno pertinenza dell’essere umano. 

Per gli autori dunque il pensiero di Calvino si presenta come un antidoto a quella che può essere definita una “colonizzazione del futuro” da parte dell’accelerazione tecnologica e digitale. Colonizzazione che negli anni Cinquanta del Novecento era erroneamente prevista come imminente. I tempi ora sembrano davvero maturi, alla luce della repentina diffusione dell’IA generativa che può rendere il percorso formativo dei giovani anche demotivante e particolarmente frustrante. Perché imparare a scrivere se scriverà per noi ChatGPT? Perché esercitare la memoria se abbiamo un archivio infinito sempre con noi in tasca?

Il cervello umano viene sempre più spesso equiparato a una Macchina di Turing, capace di elaborare una quantità enorme di dati e di trarre conclusioni a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto è legato indissolubilmente al corpo che lo contiene e la deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, fra l’uomo e se stesso. L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una lastra di gestione delle informazioni, ma si tratta di informazioni che non modellano il cervello perché non passano per il corpo. Scrivere a mano, per esempio, vuol dire impegnarsi in una pratica che territorializza quel che si sta pensando, mettendo in movimento sinapsi e reti neuronali, modificandone la quantità e la dimensione. 

La digitalizzazione del mondo, la sostituzione di qualunque riferimento al mondo, per passare a funzionare con modellazioni di esso, implica un importante mutamento qualitativo. Il ruolo degli umani diventa secondario anche nella circolazione ultrafluida dell’informazione. L’umano non è che un segmento di tale circolazione, un segmento di volta in volta sempre più destrutturato e fluido. (M. Benasayag, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, Erickson, Trento, 2016)

Sebbene fosse nato con tutt’altri scopi, il protocollo HTTP, messo a punto da Tim Bernes-Lee e regalato al mondo dal Cern all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, aveva già involontariamente gettato le basi per la crisi della relazione tra fonte e informazione. Quelle che oggi vengono definite fake news online nascono proprio dalla possibilità di scollare informazioni e fonti ricombinandole senza rispettarne il legame genetico, un meccanismo di disinformazione che, sebbene il world wide web non abbia creato, ha tuttavia reso esponenziale e molto semplice da porre in essere. (T. Rid, Misure attive. Storia segreta della disinformazione, Luiss University Press, Roma, 2022)

Non solo l’IA generativa è afflitta dai cosiddetti “problemi della allucinazione”, un modo elegante per dire che inventa di sana pianta informazioni e fonti, ma il dilemma della black box non permette nemmeno agli sviluppatori di conoscere con esattezza come l’input venga generato in qualità di output. In altre parole, per Prencipe e Sideri, così com’è l’algoritmo generativo demolirebbe lo stesso modello di business di Google. Eppure, risolto questo problema – con la fusione di entrambi gli algoritmi – rimane il tema dell’astrattezza del linguaggio. 

L’algoritmo generativo massimizza le probabilità di combinazioni tra parole. Questo aiuta a simulare qualsivoglia stile. Tuttavia la creatività non richiede di simulare bensì di essere originali. 

Ridotta alla sua essenza probabilistica, l’originalità è la minimizzazione delle probabilità che quella combinazione sia già stata fatta da altri: l’esatto contrario di ChatGPT. 

Quel che è vero per la capacità di creare vale anche per la scoperta scientifica e la stessa innovazione. La storia della scienza potrebbe essere riscritta come storia dell’improbabilità. 

«Il mio ideale linguistico è un italiano che sia il più possibile concreto e preciso. Il nemico da battere è la tendenza degli italiani a usare espressioni astratte e generiche. (I. Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino, 1980) Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire significati, a smussare tutte le punte aggressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. (I Calvino, 1988, op. cit.)»

Se le risposte dell’IA generativa sembrano buone , per gli autori, significa che non abbiamo seguito neanche questo ulteriore saggio consiglio di Calvino e ci siamo diluiti noi stessi nell’astrattezza del linguaggio delle parole chiave e delle emozioni. 

Il libro

Andrea Prencipe, Massimo Sideri, Il visconte cibernetico. Italo Calvino e il sogno dell’intelligenza artificiale, Luiss University Press, Roma, 2023.

Prefazione di Maria Chiara Carrozza.


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


Articolo pubblicato sulla Rivista Leggere:Tutti – Marzo 2024


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Marcello Montibeller, Lo zaino in spalla

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Umanità. Poteva essere un titolo alternativo, oppure un sottotitolo, della raccolta di poesie di Montibeller. Perché il libro sembra ruotare proprio intorno a questo concetto.

Per gli esseri umani la questione dell’identità non è puramente biologica. Non si tratta di sapere a quale specie si appartiene e quali sono le caratteristiche di questa, ma anche di sapere se i rapporti che ogni essere umano ha con la propria specie siano simili a quelli che tutti gli altri esseri viventi hanno con la loro specie. Mentre l’identità personale riguarda un solo individuo, l’identità umana è propria di tutti gli esseri umani.1

Il riconoscimento o l’attribuzione agli esseri umani del modo d’essere come persone, a differenza della stessa soggettività, mette in discussione il loro rapporto con la specie umana. In quanto appartenente a una specie ogni uomo è una istanziazione, più o meno riuscita, di un modello biologico, ma in quanto persona non è un «caso di» una generalità, bensì l’esistere della generalità stessa tutta in un solo individuo.2

Non si può riportare un’esperienza umana a una sola chiave di lettura, va sempre osservato il tutto con lo sguardo rivolto alla dimensione globale degli esseri umani. Ed è proprio quello che sembra aver fatto l’autore nelle sue poesie.

Nebbiosi nella prefazione descrive i testi poetici di Montibeller come immagini che trascendono le parole e rimangono vive e attive nella psiche. Immagini di natura, contesti affettivi, amori diversi. 

Sono immagini di vita che raccontano l’essere umano e la sua natura nella natura.

Per noi europei la condizione generica è sempre stata l’animalità: tutti sono animali, solo che alcuni (esseri, speci) sono più animali di altri. Noi umani siamo ovviamente i meno animali di tutti. Dal nostro punto di vista. Nelle mitologie indigene, al contrario, sono tutti umani, solo che alcuni di questi umani lo sono meno di altri. Tutti gli animali hanno un’anima antropomorfa: il loro corpo, in realtà, è una specie di abbigliamento che nasconde una forma fondamentalmente umana (con un’anima). Noi occidentali invece pensiamo di indossare vestiti che riescano a nascondere una forma essenzialmente animale.3

Montibeller sembra voler mettere a confronto diretto l’essere umano concreto e l’essere umano come categoria. 

«La natura è data all’uomo come un problema, alla cui soluzione egli si sente altrettanto attratto, quanto ne viene respinto.[…] La natura, secondo il concetto, passa in qualcosa di superiore, l’anima e il corpo, si dice, si separano; ma ciò che si separa è, secondo il concetto, un identico nella differenza.»4

Segnata dalla fisicità, l’anima compare ai suoi inizi come uno spirito naturale, ma il compiersi della sua ragione si dischiude nella fatica di abbassare il corpo a sua rappresentazione e suo segno.5

Lo stesso dualismo si ritrova nelle poesie di Montibeller, spesso applicato ai concetti di concretezza e spiritualità dell’essere umano. 

«Nell’immediato del sorriso con cui ti schiudi al mondo tu sei la vita stessa e non lo dici: non hai bisogno di racconti per esserne sicuro.»

Nel libro di Montibeller ritorna il concetto di vita come viaggio e di viaggio come vita. Tra gli esempi più eccelsi sicuramente il viaggio dantesco della Commedia e quello di Ulisse nell’Odissea, ma numerosi sono stati gli studiosi che hanno indagato il senso del viaggio e della vita. 

Il viaggiatore ricerca un luogo dove si possa sentire a casa, perché difficilmente vuole lasciare del tutto la propria vita alle spalle. Il viaggio, quindi, deve prevedere un ritorno. Alla fin fine rappresenta una ricerca volta alla conoscenza di se stessi. Un viaggio che potrà essere uno spostamento fisico oppure mentale. 

Il viaggio dell’autore somiglia a una narrazione biografica in forma poetica strutturata secondo un preciso ordine cronologico scandito da punti fermi che sembrano pietre miliari e invece sono traumi o grandi dolori, perdite, mancanze, privazioni, tormenti. Un cerchio che racconta la vita e si cinge intorno a essa. Un viaggio attraverso il dolore che l’autore compie alla ricerca di se stesso certo ma, soprattutto, della ragion di essere, di esistere. 

«io ora ti rievoco in questi fogli che non mi abbandonano, riemersi da un’infinità di tempo, proprio nel giorno del tuo addio.»

Anche il titolo scelto dall’autore è molto evocativo: lo zaino in spalla rende proprio l’idea di una partenza che vuol essere avventura, liberazione, allontanamento ma cha lascia intravedere i segni di una ribellione veloce a scemare. Basti pensare a Tamura Kafka, protagonista del romanzo di Murakami Kafka sulla spiaggia, il quale, zaino in spalla, decide di allontanarsi di casa e intraprendere il suo viaggio nel quale tutto quello che sembra dovuto al caso si scopre poi essere il suo destino. Lo scontro generazionale con il padre e la volontà di far luce sui troppi segreti e misteri famigliari sono il motore della sua partenza ma la volontà di scoprire se stesso sarà la vera forza della narrazione e della vicenda.6

Con uno zaino sulle spalle si può girare il mondo intero, senza limiti e senza freni, ma ci si può anche rendere conto presto della necessità di avere delle ancore di salvezza. Affetti, punti fermi, ricordi e tramonti che aiutano a trovare o mantenere la speranza di ricostruire la propria vita, rigenerare un’esistenza scalfita e scolpita dal dolore. 

La teoria del nuovo verso formulava la necessità di permettere a ogni poeta di concepire in se stesso il suo verso o la sua strofa originale, e di trascrivere il suo ritmo proprio e individuale, invece di indossare un’uniforme tagliata in precedenza che lo riduce a non essere che il discepolo di qualche glorioso predecessore.7

Il verso utilizzato da Montibeller è sempre libero. Le sue composizioni sono difformi sia nella lunghezza del verso che in quella della strofa. L’irregolarità della struttura ritmica viene però compensata dalla regolarità del pensiero che sottostà alle parole e che guida il lettore lungo tutta la raccolta. 

Non si conosce il motivo della scelta dell’autore, se dovuta a scarsa conoscenza della metrica oppure alla volontà precisa di modellare il proprio pensiero senza costrizioni, come affermato da Kahn. Certo è che il ritmo dei suoi componimenti è dettato dalle emozioni, dalle sensazioni, dal dolore e dalla sua narrazione. Quasi uno sfogo che serve in primis all’autore per ritrovare se stesso e la sua connessione con la vita. Il lettore viene poi ed è libero anch’egli, come il verso, di interpretare e valutare in base a gusti e conoscenze. Di analizzare e riflettere su fragilità, debolezza, difetti e imperfezioni di questa comune umanità

Il libro

Marcello Montibeller, Lo zaino in spalla, Ensemble, Roma, 2023. Prefazione di Gianni Nebbiosi.


1F. Viola, Umano e post-umano: la questione dell’identità, in F. Russo (a cura di), Natura cultura libertà, Armando Editore, Roma, 2010.

2F. Viola, op.cit.

3E. V. De Castro, Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindio, Meltemi Editore, Milano, 2023.

4G. W. F. Hegel, Filosofia della Natura. La lezione del 1819-20, Franco Angeli Editore, Milano, 2007.

5M. C. Benedetti, Naturalità e corporeità nella filosofia di Hegel, in Etica & Politica / Ethics & Politics, XIII, 2, 2011.

6H. Murakami, Kafka sulla spiaggia, Einaudi, Torino, 2008. 

7G. Kahn,  Premiers Poèmes, Wentworth Press, Londra, 2018.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Ensemble per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Wolfgang H. Ullrich, La leggerezza creativa. Un approccio innovativo in psicopterapia

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La ricerca di una «buona vita» è obiettivo di ogni individuo che viva la complessità della condivisione umana contemporanea.

Come posso vivere meglio trovando me stesso e il mio equilibrio di buona vita? Per rispondere a questa domanda, Ullrich ha messo a punto un metodo che integra la psicoterapia con stimoli mutuati da processi artistici. Partendo da questo presupposto ha introdotto nel suo metodo quell’approccio di leggerezza che Italo Calvino tratteggia nelle Lezioni americane.

«Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro.»1

Per Calvino un romanziere che intende rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, non può che farne l’oggetto irraggiungibile di una quiete senza fine. Rappresentativo in tal senso è il romanzo di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere che mostra, in realtà, un’amara constatazione dell’ineluttabile pesantezza del vivere. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. Il romanzo dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna e possono aiutare a emanciparsi. 

Emancipazione significa che gli esseri umani possono conquistare l’uso della loro ragionevole libertà. Il fondamento di questa idea, per l’autore, rappresenta il presupposto della autocomprensione dell’essere umano come essere ragionevole. L’emancipazione diventa dunque un atto di decisione liberatoria dell’individuo per diventare se stesso. Mettendo una netta distanza tra sé e le convenzioni e i ruoli sociali, egli sviluppa uno spazio interiore nel quale sono favorite le sue scelte più autonome. Per far evolvere questo spazio interiore, la persona deve appellarsi a una società più allargata nella quale ognuno può assumere la prospettiva dell’altro e può contare sulla certezza di un riconoscimento reciproco. L’identità dell’uomo moderno nasce sempre dalle sue relazioni intersoggettive. 

Questo processo di apprendimento, in terapia, significa per il paziente intraprendere un percorso di liberazione ovvero, appunto, di emancipazione. 

«Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci.»2

Il metodo Calvino, basato sull’intreccio fra opposte tendenze, sembra invitare allo studio della leggerezza attraverso l’analisi del suo opposto, della pesantezza.

Il «mondo della vita» è composto da elementi favorevoli allo sviluppo delle persone, come il loro livello di formazione, le qualità, le convinzioni e le tradizioni in cui sono immersi, ma in esso si trovano anche aspetti limitanti o repressivi, ovvero la presenza di norme silenziose che regolano i comportamenti dell’individuo in un modo che può anche essere molto vincolante. 

Da una parte gli individui sono immersi nel loro «mondo della vita» e condizionati da esso, dall’altra, quando devono risolvere dei problemi, essi sono autonomi e creano la loro vita. 

Tutto questo processo rende possibile, per Ullrich, la comunicazione orientata alla comprensione. 

La società moderna capitalistica non è costituita solo dal «mondo della vita» delle persone ma, contestualmente, anche da processi economici e burocratici, che sono dei sistemi dell’azione umana che si regolano non attraverso la comunicazione orientata alla comprensione ma attraverso dinamiche mediate dal denaro o dal potere.3

Il paziente, come tutte le persone, aspira alla sua autorealizzazione, ovvero a trovare un proprio possibile buon progetto di vita, che lo renda felice e possa liberarlo dei sintomi della sua sofferenza. La via che porta a una buona vita necessita che il paziente abbia la capacità di prendere delle decisioni esistenziali. 

L’uomo moderno si pone diversi interrogativi in un modo esistenziale: siamo impotenti di fronte alla realtà al punto di poterci solo adattare a essa? Conta ancora qualcosa il nostro desiderio di dispiegare la spontaneità, di usare ragione e fantasia per influenzare il corso della vita?

Nella remota epoca della filosofia greca, quando il macrocosmo dialogava ancora con il microcosmo, secondo Platone, la buona vita era un modello che valeva per tutti ed era legato al concetto di verità e di bellezza. 

Nell’epoca del pensiero post-metafisico il concetto di buona vita si è profondamente modificato perché, a differenza di quel remoto passato, non esiste più un modello che valga per tutti. 

La persona per cambiare deve solo accettarsi così com’è.4

Ogni persona può scegliere di poter lasciarsi andare passivamente o porsi invece l’obiettivo di riprendere la vita nelle proprie mani, di diventare il regista del proprio destino.

Questo approccio è poi diventato un metodo con Kierkegaard.5

Passo dopo passo, l’individuo assimila la sua storia e seleziona, da essa, gli elementi necessari per decidere chi e cosa vuole essere oggi e in futuro, individuando così anche ciò che non vuole essere e come non vuole condurre la vita. Per l’autore, l’esperienza che gli individui fanno nel percorso alla ricerca del proprio voler essere se stessi li porta ad acquisire un «sapere esistenziale», ovvero essi trasformano se stessi a un livello più alto di coscienza mentre acquistano una consapevolezza del loro essere avviluppati nella propria storia personale e nel loro essere in balia di una forma di vita che dividono in modo intersoggettivo. Questo processo viene reso possibile da un atto di auto-riflessione ma soprattutto da un dialogo con gli altri, dal proporre loro il proprio progetto di vita e discuterlo, dal confrontarsi con critiche e conferme. Lo scambio con gli altri rappresenta, in ultima analisi, una via di uscita da un’esistenza senza via d’uscita. 

Habermas sostiene che abbiamo bisogno di testimoni per sviluppare la nostra identità. Abbiamo bisogno di un dialogo etico-esistenziale con gli altri. Questo concetto corregge l’illusione che la nostra individualità si trovi in nostro esclusivo possesso e che si abbia la forza di decidere da soli, con coerenza, chi vogliamo essere e mantenere individualmente questa decisione. La relazione della persona con se stessa nasce solo contemporaneamente alla sua relazione con gli altri. 

La ricerca della propria autenticità si svolge nella relazione con altre persone, in un dialogo etico esistenziale, in una comunicazione orientata alla comprensione6 che si può anche chiamare comunicazione congruente.7

La coerenza e la congruenza sono due aspetti strettamente connessi nella ricerca dell’autenticità di una persona. 

Una famiglia che pratica una dinamica di comunicazione prevalentemente incongruente induce i suoi membri a interiorizzare e a far propria questa modalità di agire, al punto che anche il viaggio dei singoli componenti alla ricerca del sé viene progressivamente falsato fino a condurre spesso a un processo di alienazione da se stessi.8

Il metodo della «rappresentazione giocosa» posto in essere da Ullrich consiste proprio nel creare le condizioni di esperienza intersoggettiva che permettano ai partecipanti di vivere le loro relazioni nelle condizioni di una comunicazione congruente. Questa, infatti, genera un processo di problem-solving terapeutico in cui, con l’aiuto di fantasia e creatività, i pazienti attivano il percorso di abduzione, ovvero trovano nuove regole di vita che possono poi verificare nelle proprie azioni. 

Il metodo della «rappresentazione giocosa» può contribuire così a rendere libero il paziente da condizionamenti e costrizioni che lo attanagliano. 

Lavorare con la «rappresentazione giocosa» in terapia affinché l’insostenibile leggerezza dell’essere diventi sostenibile attraverso l’uso di una comunicazione verbale congruente che aiuti il paziente a trovare la propria autorealizzazione, ovvero la propria leggerezza creativa.

Il libro

Wolfgang H. Ullrich, La leggerezza creativa. Un approccio innovativo in psicoterapia, Guerini e Associati, Milano, 2022.


1I. Calvino,  Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 2022.

2I. Calvino, op.cit.

3J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. 2, Il Mulino, Bologna, 2017.

4F. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della teoria della Gestalt, Astrolabio, Roma, 1997.

5S. Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano, 2016.

6J. Habermas, 2017, op.cit.

7V. Satir, In famiglia… come va?, Impressioni Grafiche, Acqui Terme, 2005.

8W. H. Ullrich, Posso essere felice, Guerini e Associati, Milano, 2019.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Sara Mesa, La famiglia

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Il senso di formare una famiglia è fare dei figli? Per il Padre della famiglia raccontata da Sara Mesa è esattamente questo lo scopo del progetto: apportare al mondo altri esseri umani. Perché sono proprio i legami di sangue a fare più famiglia.

Le convinzioni di Damiàn sono per certo un costrutto sociale e religioso anche molto condiviso. Per alcuni quasi un dogma che rappresenta la natura. Ma ogni cosa acquista un differente valore a seconda della prospettiva da cui la si analizza.

La famiglia è un’invenzione sociale e non puramente un fenomeno naturale (Lévi-Strauss, 1969). È fondamentalmente un prodotto culturale e come tale in continua trasformazione ed evoluzione. Ne consegue che le sue caratteristiche strutturali e i modelli relazionali al suo interno cambiano nel tempo e nello spazio. Variano con il mutare dei contesti sociali, in quanto il rapporto tra società e famiglia è assolutamente diretto e imprescindibile. L’una è il prodotto dell’altra e viceversa (De Luise, 2010). 

La dimensione privata e privatistica della famiglia si intreccia indissolubilmente con quella pubblica e pubblicistica, a riprova del fatto che famiglia e società sono l’una il prodotto dell’altra e rispecchiano i modelli culturali predominanti in un determinato periodo storico (Luzi, 2015). La famiglia di oggi non è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa, perché le circostanze sono diverse (Durkheim, 1888). 

La Costituzione italiana considera la famiglia come un fatto naturale, istituzionalizzato attraverso il matrimonio. Ècertamente un modo di considerare il modello famigliare, che è molto distante da quello attuale. La famiglia, infatti, non viene più considerata un’istituzione ma un’unione di affetti (Fruggeri, 2005). 

Il libro di Mesa indaga la famiglia nel suo aspetto privato e privatistico. L’intera narrazione si concentra sul rapporto tra i famigliari e su ognuno di loro preso singolarmente. L’autrice si sofferma su ogni dettaglio, ogni seppur minima sfumatura che possa consentire al lettore di ben percepire il dramma di ognuno e la complessità della famiglia intera. Anche se non viene indagata nel libro di Mesa, la stretta correlazione con la società è implicita. L’autrice è di origini spagnole. In Spagna, rispetto anche all’Italia, i progressi fatti, sul piano legislativo, a vantaggio di una parità di fatto per le diverse tipologie di famiglie sono notevoli eppure non si può non domandarsi se, in concreto, questo progresso sia davvero presente a livello sociale e culturale. Leggendo tra le righe del romanzo di Sara Mesa la risposta è no. Il libro infatti sembra sottendere una volontà di denuncia, un anelito di ribellione, uno spirito di rivalsa. Contro il patriarcato. Contro l’autoritarismo. Contro le costrizioni. Contro l’ipocrisia. 

Sara Mesa ha scelto un’impostazione corale per il suo romanzo, un modo per raccontare gli stessi accadimenti sfruttando differenti punti di vista. Ed è proprio seguendo le molteplici angolature che il lettore riesce a percepire quel forte desiderio di libertà e critica ai pilastri che hanno sostenuto e sostengono l’istituzione famigliare: autoritarismo e obbedienza, vergogna e silenzio. 

Già. Si parte proprio dal silenzio. Il romanzo si apre al lettore con l’affermazione del padre circa la trasparenza della sua famiglia nella quale, a suo dire, non ci sono segreti. In realtà i segreti ci sono. A mancare è la comunicazione. A regnare è il silenzio. 

Una famiglia che pratica una dinamica di comunicazione prevalentemente incongruente induce i suoi membri a interiorizzare e a far propria questa modalità di agire, al punto che anche il viaggio dei singoli componenti alla ricerca del sé viene progressivamente falsato fino a condurre spesso a un processo di alienazione da se stessi (Ullrich, 2019).

Una comunicazione incongruente, quella della famiglia raccontata dall’autrice, frutto anche dei timori per l’autoritarismo del capofamiglia e della volontà, perlopiù inconscia, di ottenere la sua approvazione continua.

Il Padre, per esser certo che Il Progetto funzioni, ha stabilito regole rigide. In teoria ciò non sarebbe neanche sbagliato ma bisogna chiedere qual è il confine che separa l’ordine dalla psicosi e, soprattutto, qual è il livello di sopportazione per ogni singolo componente il nucleo famigliare. Sara Mesa indaga a fondo questo aspetto, raccontando in dettaglio le conseguenze subite da ognuno dei componenti la famiglia. I figli ne risentono molto ma anche il padre e la madre finiscono con il subire le regole, sotto il cui peso l’intera famiglia rischia di soccombere soffocata anche dal claustrofobico spazio della loro abitazione.

Non è lo spazio fisico in quanto tale a mancare ma lo spazio per vivere, creare, sognare, liberarsi da obblighi e timori e lasciarsi andare alla vita. 

Il libro

Sara Mesa, La famiglia, La Nuova Frontiera, Roma, 2024.

Traduzione dallo spagnolo di Elisa Tramontin.

Titolo originale: La familia


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Dalla democrazia greca al demos inclusivo moderno: Giulia Sissa, L’errore di Aristotele

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Oggi le donne sono al potere. Dirigono imprese, governano paesi, comandano eserciti. Ne hanno conquistato il diritto. Ne sono capaci. Ma nulla va dato per scontato. 

Questo il motivo per cui Giulia Sissa, docente di scienze politiche alla University of California, ha ritenuto necessario un libro che ripercorresse la tappe determinanti di questo lungo e tortuoso percorso che dagli antichi greci giunge fino a noi e ha, come meta, la parità l’eguaglianza e il rispetto reciproco.

I greci hanno saputo immaginare ragazze eroiche, madri autorevoli, regine guerriere. Ma hanno anche inventato l’autogoverno di cittadini guerrieri, la demokratianel quale il popolo è maschio e deve essere virile. Ed ecco che le donne potenti diventano impossibili. 

L’uomo è un animale politico e la donna un animale domestico: Aristotele organizza queste idee in un sistema di pensiero. Il cristianesimo ne diffonde i principi e ne rafforza il rigore. 

Sarà solo alla fine del Settecento che emergeranno nuovi diritti, i quali appartengono a ogni individuo in quanto essere umano, senza distinzione di genere. È il progetto emancipatorio dei Lumi. È la premessa della qualità democratica moderna. Per Giulia Sissa, è il nostro orizzonte. 

Le donne non sono identiche agli uomini e gli uomini non sono identici alle donne. Biologicamente è così. Per cui, nell’analisi dell’autrice, ciò che rende veramente possibile l’emancipazione e l’uguaglianza lo dobbiamo a quei filosofi che sostituiscono la legge naturale con i diritti umani. Lo dobbiamo alla cultura dei Lumi. Non quella portata avanti da Rousseau il quale, ancora più sprezzante di Aristotele, rifiuta alle donne la possibilità di “coltivare” la ragione, ossia di ricevere un’istruzione adeguata, accusandole di usurpare diritti non dovuti. È con Condorcet che il progetto dell’Illuminismo comincia ad apportare chiarezza scientifica, a sostituire il biasimo con il sapere. 

Ancora oggi si dà per scontato che le donne, anche le donne politiche scienziato astronauta medico ingegnere, siano invischiate nella domesticità alla quale, del resto, non si smette di ricondurle. Si mette in risalto la loro apparenza fisica, come se avesse in qualche modo a che fare con ciò che pensano, dicono e contro cui si battono o da cui si difendono. 

Le donne vivono la loro presenza in posizioni di alta responsabilità come un’intrusione in un universo solidale, omogeneo, fratriarcale.1 In tali condizioni giungono a dubitare della loro legittimità. Forse il motivo per cui sovente si assiste a una sorta di metamorfosi riguardo le donne che hanno il potere – politico o economico – e che ricoprono ruoli apicali. Attivano una sorta di mascolinizzazione, evidente nei comportamenti, nelle espressioni verbali e, a volte, anche nell’abbigliamento. Quasi a voler celare la loro reale identità e tentare di uniformarsi o mimetizzarsi all’interno di questo ambiente fratriarcale che le circonda. 

I teorici contemporanei della democrazia si appoggiano al postulato dell’universalismo: il demos moderno è inclusivo. Nei processi di democratizzazione vediamo emergere l’aspirazione a un’uguaglianza sociale, intesa come equivalenza, autonomia e partecipazione.2 L’equivalenza significa attribuire un valore uguale a individui che appartengono a gruppi sociali diversi ma che sono tuttavia riconosciuti e rispettati nella misura in cui condividono tutti una stessa umanità. Ammettere tutti i cittadini al diritto di cittadinanza non significa abolire le differenze – di ricchezza, status, classe, genere – bensì trascendere queste distinzioni in vista di un livello superiore di somiglianza umana.

Il libro

Giulia Sissa, L’errore di Aristotele. Donne potenti, donne possibili, dai greci a noi, Carocci Editore, Roma, 2023


1F. Gaspard, Du patriarcat au fratriarcat. La parité comme nouvel horizon du feminisme, in «Cahiers du genre», 2-3, 2011.

2P. Rosanvallon, La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma, 2013.


Articolo pubblicato sulla Rivista Leggere:Tutti – Gennaio/Febbraio 2024


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Carocci Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Simon Winchester, Terra. Da bene comune a proprietà privata, da luogo di dominio a spazio di lotta

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Nel 1879 il governo degli Stati Uniti dichiarò il capo Sioux Orso in Piedi “persona” di diritto. Eppure, gli sottrasse comunque le sue terre. 

I colonizzatori occidentali, desiderosi di assicurarsi legalmente il possesso delle terre native, introdussero una formalità che i loro predecessori indiani non avevano mai conosciuto: l’atto di proprietà. Redatto da un organo governativo chiamato Commissione per la confisca.

Dell’occupazione dei nativi americani forse secolare, forse addirittura millenaria, s’intravedono ormai solo pallide ombre. Negli ultimi tempi, alcune comunità del New England hanno iniziato a offrire – anche solo con un breve discorso, una concisa omelia, un momento di silenzio all’apertura di un’assemblea pubblica – un segno di rispetto ai nativi americani. Ciò avviene già da anni in Australia e in Nuova Zelanda, paesi il cui trattamento dei loro predecessori aborigeni non è meno deplorevole di quello palesato in America. 

Per Simon Winchester, scrittore e giornalista del «Guardian», il fatto che questa pratica, teoricamente redentiva, si stia diffondendo lentamente fino al tessuto pubblico degli Stati Uniti non può che essere un segnale positivo. In Terra egli si stupisce anche solo di come sia concepito il concetto di proprietà e di come in molti, in tutto il mondo, sembrano spingersi a tanto per acquistare ipotecare difendere rubare comprare entrare in comunione con un’entità che, in verità, non può essere posseduta da nessuno, mai. 

Gran parte di coloro che oggi rivendicano il possesso di un terreno lo ha acquistato di seconda mano. In generale, la terra che appartiene a qualcuno ora è già appartenuta a qualcun altro in passato e, che si tratti di un prato o una brughiera, di un tratto sul fianco di una montagna o di un parcheggio sulla strada principale, può essere descritta al pari di un’auto o di una lavatrice: second hand. Non sempre però. Esistono piccole sacche di terra nuove di zecca che non sono mai state di proprietà di qualcuno. 

Surtey, al largo della costa dell’Islanda meridionale, è un’isola di circa 600 acri di terra nuova, nata dal mare nel novembre del 1963 e, poiché la sua roccia è crepata e friabile e facilmente spazzata dalle onde e dal vento, sta lentamente diminuendo di dimensioni. Tuttavia, durante la sua esistenza, ha accumulato una discreta quantità di vita non umana. 

Nel Pacifico meridionale, una piccola isola è apparsa dopo che si sono diradate le ceneri sparse dal vulcano nel Regno di Tonga. Anche Hunga Tonga come Surtey si sta lentamente erodendo. 

La natura non è la sola a creare nuova terra, anche l’uomo lo fa. Discreti appezzamenti di nuovo territorio sono stati realizzati, in luoghi solitamente sovraffollati, a colpi di ingegneria dragaggi scavi demolizione di grandi quantità di materiali che sono stati gettati in mare allo scopo di far nascere nuove proprietà immobiliari. 

Il Trattato di Nanchino del 1841 obbligò la Cina a cedere in perpetuo alla Gran Bretagna le isole di Hong Kong e Stonecutters. Quest’ultima, dove la Royal Navy immagazzinava le munizioni per la Flotta del Pacifico in lunghi e profondi tunnel scavati nel granito, non è più un’isola da anni. La discarica la collega ora alla terraferma di Kowloon, e su di essa sono stati eretti condomini e ferrovie e tunnel della metropolitana che la attraversano. La terra appartiene a Hong Kong ma è locata ai costruttori.

A Manhattan esiste un terreno artificiale, nell’unica estensione della discarica che costeggia gli scisti e gli gneiss fin troppo solidi dell’isola stessa. Battery Park City, con le sue migliaia di appartamenti e i suoi alberghi, negozi e uffici, è stata costruita nella punta sud-occidentale dell’isola su un terreno artificiale, dragato sotto gli occhi della Statua della Libertà, strenuamente sbarrato dal mare e poi asciugato e livellato per divenire talmente solido che l’edificazione è proseguita per i successivi trent’anni. Il terreno appartiene ancora a un ente pubblico. 

Tutte queste terre, che siano plasmate dalla natura o estensioni create dall’uomo, sono di piccole dimensioni. C’è un paese intero sorto dal lavoro degli uomini che hanno conquistato e strappato il terreno alla natura, o meglio alle acque. Il Regno dei Paesi Bassi ha trascorso gran parte della sua esistenza recente a fabbricare nuovi territori per sé e per gli olandesi e, una volta realizzati, a fare in modo che questi beni immobili divenissero proprietà privata. I Paesi Bassi sono essenzialmente un enorme delta fangoso, un ammasso di pianure alle foci di tre grandi fiumi europei: Reno, Mosa, Schelda. Oggi si compone di dodici province, sei delle quali hanno come suffisso comune la parola land, terra. Il sostentamento del regno è sempre dipeso dal suo successo nel combattere le acque del Mare del Nord, sempre più agitate e, al giorno d’oggi, sempre più alte. 

Dal 1880 a oggi il livello del mare è aumentato di oltre 20 centimetri. La velocità con cui il livello del mare continua a crescere è più che raddoppiata nell’ultimo periodo, passando da 1.5 millimetri a 3.6 millimetri all’anno. Se si prende come riferimento il periodo tra il 2013 e il 2021, l’aumento è risultato pari a 4.5 millimetri per ogni anno, secondo i dati del 32° Rapporto State of the Climate. A incidere sul fenomeno dell’innalzamento sono tre fattori principali: l’espansione termica dovuta all’aumento delle temperature dell’acqua, lo scioglimento dei ghiacciai montani e quello delle calotte glaciali di Groenlandia e Antartide. 

Almeno 900 milioni di persone, che vivono in aree costiere in tutto il mondo, subiranno l’impatto dell’innalzamento del livello dei mari. Mentre gli abitanti di piccoli Stati del Pacifico, come le Fiji, Vanuatu e le Isole Salomone, già in parte sommerse, si stanno trasferendo. 

Si calcola che saranno oltre 1800 chilometri quadrati di terra che rischiano di essere sommersi.

Se, da un lato, si cerca di preservare quanta più terra possibile per averne disponibilità, dall’altra ne si limita l’utilizzo rendendola, di fatto, inaccessibile. Un paradosso che Winchester sottolinea più volte nel testo.

La recinzione della terra, la rimozione di una porzione della superficie terrestre dalla proprietà comune di molti a quella di uno o più individui privati, ha costituito una vera rivoluzione dell’ordine sociale. 

I più grandi proprietari terrieri del mondo sono quasi tutti i monarchi o sovrani assoluti. L’elenco non può non includere il sovrano britannico, proprietario tecnico in ultima istanza dell’intera superficie del Regno Unito, dalle Schetland alle Isole Scilly, insieme a porzioni o intere parti delle 54 nazioni ora indipendenti che un tempo facevano parte dell’Impero. Un quarto della popolazione mondiale vive su terre in rapporto nominalmente feudale con la Corona. 

I più grandi proprietari terrieri privati del mondo sono australiani. La più grande proprietà singola del paese, nell’Australia meridionale, è una stazione ovina che si estende per quasi 6 milioni di acri. Negli Stati Uniti c’è un discreto numero di proprietari terrieri molto ricchi. I venti più facoltosi possiedono ben oltre mezzo milione di acri a testa, e i primi cento nel loro insieme detengono tanta terra quanto l’intero stato della Florida. 

Al centro del concetto di proprietà della terra c’è il diritto di dire agli altri di andarsene. Chi acquista un terreno può godere del Bundle of rights, complesso di diritti: possesso, controllo godimento disposizione e esclusione. Un proprietario terriero può escludere gli altri, può vietare ad altri di entrare nella sua proprietà e ha il diritto di chiedere alle forze all’ordine di costringere chi sconfina ad andarsene. 

In molti stati la violazione di domicilio è considerata una grave infrazione dello spazio personale. All’estremo opposto, ci sono paesi in cui è del tutto legale per chiunque trovarsi su un terreno di proprietà privata. 

In Scozia dal 2003 non esiste più il concetto di violazione di domicilio. Il diritto di accesso ha, per la maggiore, la meglio sul diritto quantomeno di privacy del proprietario. 

Il diritto di muoversi liberamente senza arrecare danno in un territorio, per fare esercizio fisico o semplicemente per ristorare l’anima, è stato per secoli parte inalienabile dell’esistenza umana.

Terra, aria, oceano erano un tempo componenti del diritto di nascita dell’uomo. Oggi, la natura pubblica della terra, in particolare, è stata notevolmente ridotta e i diritti umani universali relativi al suo utilizzo si sono sempre più assottigliati. 

In Scandinavia l’antico diritto di muoversi liberamente per il territorio, il cosiddetto allemansrätten – il diritto di tutti – sopravvive e viene custodito.

Tutte le foreste e i terreni agricoli della Bielorussia sono decretati di proprietà pubblica dalla costituzione nazionale postsovietica e chiunque può avventurarsi nei boschi del paese a prendere legna, frutta, bacche e piante medicinali. In Estonia è espressamente consentito raccogliere nocciole a volontà. In Baviera esiste una legge chiamata Schwammerlparagraph – clausola dei funghi – che dà a tutti il diritto assoluto di raccogliere e appropriarsi di piante selvatiche all’interno delle foreste regionali. 

Gli usi civici sono diritti che, da sempre, le comunità locali esercitavano sul loro territorio per trarne i prodotti necessari alla sopravvivenza. Nonostante le proprietà collettive sono inalienabili, negli ultimi due secoli la loro superficie si è grandemente ridotta. Alla fine del XVIII secolo rappresentavano circa l’80% del territorio italiano. Ora solo un decimo. 

L’istituto delle proprietà collettive è stato quasi sempre ignorato, solo all’indomani della crisi economica del 2008 si è riscontrato un rinnovato interesse per il territorio e le sue risorse, fruibili dall’intera comunità. 

Le proprietà collettive italiane presentano una straordinaria biodiversità. Tra le maggiori ci sono: le Regole e leMagnifiche Comunità del Trentino Alto Adige, le Vicinie del Veneto, le Partecipanze dell’Emilia Romagna, le Università Agrarie del Lazio. In generale, sono membri effettivi della comunità individui di sesso maschile, discendenti per linea maschile degli originari abitanti del luogo. Ma questa non è una regola assoluta. Alcune comunità accettano come membri a tutti gli effetti persone che lavorano da un certo periodo nell’ambito della comunità e, in alcuni casi, anche donne. 

Il ruolo delle universitas era di notevole importanza nel passato feudale italiano. La sua funzione travalicava la mera gestione di un patrimonio collettivo di terreni comuni, configurandosi come strumento di partecipazione attiva alle scelte importanti nella vita della comunità. Oggi si configura quale forma partecipativa associata di gestione delle terre di proprietà collettiva di un determinato territorio, costituendo un punto di riferimento per i residenti che fruiscono delle risorse naturali ivi presenti.

Per Simon Winchester, le città sono il luogo in cui la terra viene a morire. Dove sorgono le grandi città – Tokyo, Messico, Shanghai, Londra, New York, Il Cairo, Los Angeles, Chongqing, Seul – i pascoli e le foreste sono stati sostituiti dall’asfalto e dal cemento, il verde ha lasciato il posto al grigio, i corsi d’acqua sono divenuti fognature piastrellate, le vallate e le montagne gole intasate di auto che separano i grattacieli. Nelle periferie oltre la cinta urbana, il degrado della terra è stato più insidioso, il suo status deteriorato spesso astutamente mascherato. La terra così come appare è perlopiù un artificio, un simulacro di campagna. Gli spazi pubblici delle città laddove esistono, sono stati a lungo una conferma di questa perdita, presentandosi come sostituti. 

L’agorà dell’antica Grecia riconosceva la necessità di uno spazio in cui tutti potessero recarsi per ascoltare i discorsi dei loro governanti, per incontrarsi tra loro, per dedicarsi alla politica o per offrire merci. L’agorà era, a tutti gli effetti, un bene pubblico. Nei centri di alcune città, ancora oggi, si custodiscono terre comuni.

A Newcastle-upon-Tyne, nel nord dell’Inghilterra, c’è il Town Moor, oltre mille acri di terreno agricolo preservato, dove possono pascolare ovini e bovini, scorrazzare conigli e, un tempo, decollare piccoli aerei. 

Lo Stanley Park di Vancouver ha pressoché le stesse dimensioni e, proprio come il Town Moor, risulta intatto, inalterato dall’intervento umano. 

E poi ci sono i maidan delle città orientali, grandi distese di prati, spazi verdi che fungono, letteralmente e metaforicamente, da polmoni urbani. Alcuni di questi, come il maidan di Kiev e Piazza Tahrir al Cairo, sono diventati famosi come centri di attivismo politico. Altri, come il maidan di Calcutta, ricoprono una posizione più curiosamente postcoloniale, considerata dai bengalesi contemporanei quasi un’apologia compensatoria della precedente autorità imperiale straniera. 

Per ogni città utopica progettata ed edificata con grandi speranze – Welwyn e Port Sunlight in Inghilterra, Chandigarth in India, Islamabad in Pakistan – c’è una ventina di aggregazioni umane sovraffollate, con pochi elementi di riscatto e ben pochi ricordi del paesaggio naturale cha hanno sostituito. 

Il paesaggio è territorio di comunità, spazio del vissuto, momento di relazioni. Il paesaggio antropizzato è uno spazio in continua costruzione, sede di complesse relazioni interne ed esterne. Tale prospettiva è resa ancor più evidente dall’etimologia del termine corrispondente inglese landscape, che combina la parola land – terra – con un verbo di origine germanica, scapjan|shaffen – trasformare, modellare – per cui il significato è terre trasformate. Il paesaggio è quindi luogo costruito, processo percettivo di rappresentazione, organizzazione e classificazione dello spazio, modalità per ordinare l’esperienza, complesso processo culturale fra diversi poli delle relazioni sociali che prevede le aspettative, le potenzialità, le relazioni di una determinata comunità. 

Attraverso i concetti di tempo e di spazio, l’uomo ordina la realtà, le cose, gli eventi, le persone nell’ambiente in cui vive, e questi due elementi divengono fondamentali sia nel tentativo di comprendere la natura, sia nelle potenzialità di realizzazione delle proprie aspettative. In questo senso il landscape diviene un complesso processo culturale e sociale implicato nelle relazioni attive fra persone. Se le idee di tempo e di spazio sono un mezzo di comportamento e delle pratiche sociali, il landscape allora rileverà tali relazioni sociali.1

Il landscape, dunque, come codice grazie al quale osservare una determinata comunità, momento di relazioni interne ed esterne, processo culturale sempre in divenire, costruzione di luogo e narrativa dei luoghi. Il paesaggio osservato nella sua dimensione antropica, lo spazio concepito non come puro contenitore ma insieme complesso di fattori economici, politici, sociali e religiosi che in un determinato ambiente si relazionano. 

I missionari salesiani della regione del Rio Das Garcas hanno capito che il mezzo sicuro per convertire i Bororo consisteva nel far loro abbandonare il villaggio per un altro in cui le case fossero disposte in ranghi paralleli. Disorientati in rapporto ai punti cardinali, privati del piano sul quale si basano tutte le loro nozioni, gli indigeni perdono rapidamente il senso delle tradizioni, come se i loro sistemi sociali e religiosi fossero troppo complicati per poter fare a meno dello schema reso evidente dalla pianta del villaggio. Lévi-Strauss mostra così chiaramente l’importanza vitale, per un gruppo di indigeni, del proprio spazio culturalmente concepito e interiorizzato, del proprio landscape, punto di orientamento e piano capace di sostenere il sapere, le relazioni e la memoria storica di una comunità. Non il villaggio in quanto entità materiale ma struttura spaziale in grado di generare e mantenere solidi gli orientamenti e quindi le identità.

Il legame comunità-villaggio è rapporto esistenziale che mette in gioco fattori emotivi e affettivi. Lo sradicamento comporta spesso un malessere, un male del ritorno, un’assenza di luogo che Ernesto De Martino indica come “angoscia territoriale”. Il male del ritorno colpisce gli individui costretti a lasciare il proprio luogo di nascita, il proprio spazio del vissuto, facendo così l’esperienza di una presenza che non si mantiene davanti al mondo, davanti alla storia.2

Il place attachment è correntemente indicato come il fenomeno per cui le persone formano forti legami emotivi con l’ambiente fisico. 

Il legame di attaccamento sembra emergere con maggiore incisione quando l’individuo si distacca dal luogo e in maggior misura quando è costretto a distaccarsene. Tra i vari aspetti dell’attaccamento vi è quello legato alla sfera simbolica, indice del bisogno di attribuire grande importanza a un particolare luogo perché si ritiene che esso sia stato determinante per la formazione dell’identità personale, famigliare e di gruppo.

Ma nell’ambito degli studi sui luoghi e le sue circostanze esperienziali va ricordato anche l’impatto che esso ha sulla qualità della vita. In alcuni studi è stata evidenziata la prevalenza di depressione, dolore e danni emotivi causati dalla “mancanza di spazio” e dalla perdita della terra. La ragione potrebbe essere la mancanza di luogo e di attenzione da parte delle persone nella gestione dello spazio. Negli ultimi anni, l’attenzione di architetti, designer e pianificatori è aumentata e il ruolo del design come strumento per modellare l’ambiente e rispondere alle aspettative umane ha acquisito maggiore importanza. 

Un ambiente è composto da una combinazione di parametri fisici e sociali. Quindi il rapporto tra le persone e il luogo è reciproco. Le persone traggono significati diversi dai luoghi e poi gli trasmettono un significato. Il senso del luogo è l’esperienza di tutto ciò che le persone inducono nei luoghi. 

Nell’ambito del place attachment di recente è stato inserito anche l’attaccamento al posto di lavoro. Comprendere le relazioni affettive, cognitive e comportamentali delle persone alla perdita di luogo dovrebbe informare le strategie prevalenti di gestione del cambiamento organizzativo. Le parti interessate dovrebbero essere consapevoli dell’impatto che il cambiamento sul posto di lavoro può avere sui lavoratori che potrebbero sentirsi minacciati e resistenti ai cambiamenti.

L’attività di vivere e conoscere uno spazio è attività cognitiva, in un sistema in cui l’uomo diviene organizzatore di un habitat da lui modellato. Ciò comporta una interiorizzazione dei luoghi, ancora Ceccarini afferma che gli individui diventano essi stessi luoghi. La percezione del proprio landscape è dentro se stessi, depositata nel bagaglio di conoscenze e ciò consente, anche senza un rapporto visivo e diretto col paesaggio, di ricostruire il proprio luogo del vissuto, la propria mappa mentale. 

Esiste anche un forte legame con il mondo del suono, ovvero l’insieme di rumori, voci, musiche rituali, strumenti che vanno a formare il “paesaggio sonoro” di una determinata comunità nel suo territorio: il soundscape. Un paesaggio, soprattutto quando è antropizzato, è anche un paesaggio sonoro. E l’elemento sonoro si costituisce come chiave di lettura dell’identità di una comunità, al pari di altri elementi, quali l’economia, i riti, la parentela. 

Il paesaggio, al pari di qualsiasi altra sfera del sociale, è estremamente dinamico, soggetto a cambiamenti continui in rapporto alle trasformazioni, sempre più accelerate, della società contemporanea. 

Costruire, nel senso di edificare, e abitare sembrano fra loro collegati da una relazione strumentale: si costruisce per abitare. Tuttavia, la sfera dell’abitare appare molto più vasta di quella del semplice alloggio, dell’abitazione in senso stretto. 

La relazione dell’uomo con l’ambiente è bidirezionale: da una parte c’è il modo in cui l’ambiente ha influenzato l’attività degli esseri umani, i quali hanno dovuto adattarsi all’ambiente, e dall’altra c’è il modo in cui gli esseri umani hanno determinato cambiamenti adattando l’ambiente alle proprie esigenze. 

L’abitazione è stata considerata un’estensione dell’individuo, una seconda pelle, una sorta di carapace efficace tanto a mostrare quanto a nascondere e a proteggere, oltre a rappresentare un importante agente si socializzazione. Ma la casa è anche dove lo spazio si fa luogo, dove le relazioni famigliari, di genere e di classe vengono negoziate, contestate o trasformate. È un contesto attivo nel tempo e nello spazio adatto allo sviluppo dell’identità individuale, alle relazioni sociali e al significato collettivo. Non è da considerarsi come una cosa, bensì un processo dal momento che trovare accoglienza è qualcosa in cui siamo costantemente impegnati. Chi promuove nuovi modelli innovativi di abitazione tende a sposare una concezione dell’abitare che dà importanza alle attività di cura verso gli altri per creare e mantenere un mondo comune abitabile, un mondo umano. Ciò implica trasformare gli spazi della città e della casa in territori domestici, cioè luoghi che percepiamo come ambiti dell’intimità e del radicamento, in cui ci sentiamo a nostro agio, che siamo in grado di controllare dal punto di vista cognitivo e che ci coinvolgono dal punto di vista emotivo. 

Il libro

Simon Winchester, Terra. Da bene comune a proprietà privata, da luogo di dominio a spazio di lotta, Mimesis, Milano – Udine, 2023.

Traduzione dall’inglese di Donatella Caristina.

Titolo originale: Land: How the Hunger for Ownership Shaped the Modern World.


1G. Ceccarini, N. Rezashateri, Mundus. Tra paesaggio, memoria e uomo, in Dialoghi Mediterranei, 1 marzo 2020.

2E. De Martino, La terra del rimorso, Einaudi, Torino, 2023.


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno, Io ricordo tutto

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Memoria e amnesia sono i punti focali intorno ai quali nasce, con ogni probabilità, l’idea che ha ispirato Io ricordo tutto di Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno. Si tratta di un romanzo dai risvolti crime e investigativi ma anche di un libro che indaga la mente umana. Gli autori affrontano vari temi che spaziano dall’identità alla memoria, dalla malattia al potere di sentimenti e ricordi. Un’indagine che riguarda la vita delle persone, i piccoli gesti, gli accadimenti quotidiani, gli incidenti, le malattie, la morte e l’elaborazione di un lutto, di una perdita che, a volte, coincide con la difficoltà di ritrovare se stessi, il proprio equilibrio, la ragione della propria esistenza. 

Il protagonista è Ernesto Ferrari. Una mente brillante messa a dura prova dagli ostacoli della vita. Disagio e malattia sono ampiamente trattati nel testo ma da un punto di vista non strettamente clinico. È l’aspetto umano a prevalere nella narrazione. Il racconto di ansia, depressione, Alzheimer passa sempre attraverso il vissuto e la mente dei protagonisti in modo tale che il disturbo o la malattia non siano solo contestualizzati bensì proprio personificati, umanizzati. 

Il libro di Piccioni e Sapegno è uno scritto sulla ricerca, intesa come ricerca scientifica spirituale umana. Ma è anche un libro sulla scoperta, di se stessi prima di ogni altra cosa. Il percorso compiuto da Ernesto Ferrari è un cammino simbolico dell’uomo attraverso la propria esistenza, una riflessione sul dolore e sull’amore, sulla perdita e sul ritrovamento, sull’ambizione professionale e la semplicità del viver quotidiano. Ma non è un libro sui contrasti, sugli opposti. No, è un libro sulla vita e sul suo essere imprevedibile

La scrittura a quattro mani del libro sembra una necessità nel momento in cui il libro si rivela essere un percorso di conoscenza che ha aiutato, prima ancora del lettore, gli stessi autori. A conoscersi vicendevolmente, a conoscere la storia e poi raccontarla. L’alternarsi di parti narrative che descrivono il presente e flashback di un passato che, attraverso la mente del protagonista, irrompe nella narrazione rendono per certo la storia più avvincente e contribuiscono a mantenere alto l’interesse del lettore. Durante la lettura dei numerosi dialoghi presenti nel testo il tutto sembra rallentare senza però mai fermarsi. I discorsi aiutano il lettore a meglio entrare nella vicenda narrata ma, soprattutto, a figurarsi i personaggi e i luoghi in cui essi vivono, parlano, chiacchierano, si raccontano. Un qualcosa che, in genere, è prerogativa delle parti descrittive e che gli autori sono riusciti a trasporlo nei dialoghi.

Ricorre spesso nel dibattito pubblico la preoccupazione per terapie invasive, esperimenti al limite, disumanizzazione delle cure. Tutte tematiche che si ritrovano in Io ricordo tutto. Nella parte crime del libro certo, ma anche in quella che indaga l’aspetto umano della professione medica. La necessità e la volontà di ritrovare il contatto con i pazienti, la personalizzazione delle cure mediche. In sintesi, il bisogno della medicina di ritrovare l’umanità. Ciò naturalmente non vuol dire che la ricerca debba fermarsi o che le sperimentazioni cessino, ma che non venga mai distolto lo sguardo dalle persone a cui queste cure sono destinate. Esseri umani la cui vita è unica, diversa dalle altre, la cui persona necessita di un’attenzione che deve essere anch’essa unica, personalizzata. Questo sembra essere l’obiettivo di Ernesto Ferrari. E questo sembra essere lo scopo del racconto di Pierdante Piccioni e Pierangelo Sapegno. 

Mai dimenticarlo. E ciò è davvero simbolico perché l’intera storia sembra ruotare intorno al concetto di memoria, intesa come la capacità umana di ricordare. Il protagonista, un ipermnesico diventato un famoso neuroscienziato che sceglie di lavorare per le persone colpite dal morbo di Alzheimer. Un cerchio. Come la stessa vita. 

Piccioni, a seguito di un incidente ha perso parte della memoria. Riduttivo e semplicistico affermare che questo lo abbia fatto sentire più vicino a chi, anche se per ragioni differenti, affronta il suo stesso disagio. Piccioni è un medico ma è anche e soprattutto un uomo, una persona. Leggendo il libro non solo uno o alcuni aspetti emergono bensì tutta la complessità dell’esistenza umana con i suoi sentimenti, le emozioni, le delusioni, le sfide, il coraggio e la determinazione. La fragilità e la forza. L’egoismo e l’altruismo. Il tutto fuso in quel vortice inscindibile che avvolge l’esistenza, la scuote e la trascina come un treno delle montagne russe.

Il realismo della vicenda narrata è di sicuro uno dei punti di maggiore forza del libro e appare chiaro fin da subito quanto questo sia il risultato di esperienze, testimonianze dirette, informazioni e nozioni ben note. Come anche di sogni, desideri e speranze. La realtà che aiuta la fantasia.

Il libro

Pierdante Piccioni, Pierangelo Sapegno, Io ricordo tutto, Marietti 1820, Bologna, 2024.

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Francesco Ronchi, La scomparsa dei Balcani

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I Balcani stanno scomparendo. Politicamente dimenticati da un’Europa che negli ultimi vent’anni ha preferito aprirsi a Est fino a inglobare gli ex satelliti sovietici, lasciando così un grande vuoto nel proprio cuore geografico e storico. 

La scomparsa dei Balcani è un viaggio dentro questi territori, con l’invito a riscoprirli. Perché, per Ronchi, dentro quest’apparente vuoto si agitano invece forze in grado di condizionare il futuro dell’intero continente. Innanzitutto, il ritorno del nazionalismo serbo che scuote Belgrado e altri paesi della regione, soprattutto la Bosnia. E poi il Kosovo e il Montenegro, anch’essi tutt’altro che immuni dal revival nazionalista. 

Nell’analisi di Francesco Ronchi emerge chiaramente come l’Europa, o meglio l’Unione Europea si sia quasi completamente dimenticata di paesi quali Serbia, Bosnia, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord, Albania. Persino Ucraina e Moldova sono candidate a entrare nell’Unione all’interno della quale si discute addirittura di un eventuale allargamento verso la Georgia e le montagne del Caucaso.

Ma la scomparsa dei Balcani è anche una sparizione fisica, un abbandono materiale: molti villaggi sono in rovina e si sgretolano per l’incuria. Ricorda l’autore che, negli ultimi decenni, milioni di donne e uomini, soprattutto giovani e istruiti, hanno abbandonato le loro terre, creando così in vertiginoso vuoto demografico. Questa voragine si somma alle centinaia di migliaia di persone fuggite dai conflitti degli anni Novanta. 

Se, nei primi anni Duemila, la regione faceva passi in avanti sul piano della riconciliazione e del superamento degli aspetti più mortiferi del suo passato, nell’ultimo decennio si è invece assistito a un moto contrario che ha in parte annullato i progressi precedenti. Negli ultimi anni nei Balcani la nazione, la terra, i confini, con la loro gravità e solidità, ritornavano a essere elementi imprescindibili della politica e della società. 

Ronchi ricorda al lettore che sono proprio i contrasti attorno ai confini e alla terra a determinare la politica nei Balcani, invitandolo a riflettere sugli scambi di territori tra Kosovo e Serbia o al fatto che molte frontiere della regione sono al centro di contese fra stati. 

Come un specchio riflettente, i Balcani ricordano ciò che l’Europa è stata nel Novecento, che ora non è più ma potrebbe tornare a essere. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui, secondo l’autore, li abbiamo fatti scomparire dalla nostra visuale. Per paura più che per oblio.

In questo quadro, inoltre, non bisogna sottovalutare i costanti segnali guerreschi, la continua evocazione della guerra e il linguaggio di odio che ancora divide gruppi etnici e nazionalità. Quasi come se il conflitto non possa ritornare nella regione non tanto per una scelta deliberata, per una decisione di principio, maturata nella politica e nella società, ma per una impossibilità pratica, dovuta a una momentanea assenza di risorse economiche, umane e militari. Una pace riluttante, subita più che cercata. 

Inoltre, dalla lettura de La scomparsa dei Balcani, emerge chiaro quanto questo vuoto si stia riempendo di forze oscure. Innanzitutto organizzazioni criminali le quali, grazie a corruzione e clientelismo, catturano le strutture stabili e le piegano ai loro interessi. 

E Ronchi avverte di non cadere nell’errore di ritenerle mera espressione di un mondo criminoso arcaico. Nei Balcani si sviluppano e testano moderni e sofisticati strumenti criminali.

Nella parte Nord del Kosovo, contesa fra Belgrado e Pristina, dove non sembra imporsi alcuna chiara sovranità, sono sorte miniere di criptovalute, capaci di sfornare bitcoin poi utilizzati anche come strumento di riciclaggio in tutto il mondo.1

Persino i risultati delle elezioni americane hanno in qualche maniera a che vedere coi Balcani. Le basi operative di molti siti web che hanno organizzato e diffuso negli Stati Uniti la disinformazione pro trumpiana si trovano nella regione. 

Veles, una piccolissima cittadina nord-macedone, era arrivata a ospitare nella campagna elettorale 2016 migliaia di siti politici che disseminavano fake news a favore di Trump.2

Per cui, sottolinea Ronchi, i Balcani rischiano di diventare sempre più un “buco nero” che si presta a essere utilizzato come retroguardia strategica. E chi la controlla contribuisce a influenzare indirettamente anche i centri di potere globale. 

La scomparsa dei Balcani è il risultato di anni di viaggi e incontri fatti da Francesco Ronchi nei luoghi dei Balcani, visitando le capitali certo ma soprattutto i villaggi, le comunità. I luoghi lontani dai grandi flussi e centri. Ricercando i Balcani persino lontano da essi: a Ridgewood per esempio, ai margini di New York, dove gli eredi dei Gottschee, la minoranza tedesca dei Balcani scacciata da Tito nel secolo scorso, ancora si incontrano per parlare il tedesco antico. 

In queste periferie di quella grande periferia europea che sono oggi i Balcani, l’autore ha ricercato l’abbandono più della presenza, l’estinzione che si confonde con la persistenza. Perché, spesso, nelle piaghe della storia, nei margini, nelle ombre, nelle finis terrae si colgono inaspettatamente la direzione e il senso della storia globale

La direzione e il senso del libro di Ronchi rientrano a pieno titolo in quel filone di studi orientato alla creazione di una solida memoria storica e contemporanea dei mali, delle scelte e delle decisioni compiute dal genere umano che bisogna conoscere per modellare correttamente il presente e sperare di crearne uno migliore per il futuro. 

Il libro

Francesco Ronchi,  La scomparsa dei Balcani. Il richiamo del nazionalismo, le democrazie fragili, il peso del passato, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli – Cz, 2023.

1Panic as Kosovo pulls the plug on its energy-guzzling bitcoin miners, in «The Guardian», 16 gennaio 2022

2H. Hughes, I. Waismel-Manor, The Macedonian Fake News Industry and the 2016 US Election, in «PS: Political Science &Politics» LIV, 1, 2021


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rubbettino Editore per la disponibilità e il materiale.

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Nicoletta Varani, Giampietro Mazza, Il mosaico dell’Africa sub-sahariana

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L’Africa è costituita da società e popolazioni in movimento, che contribuiscono a renderla una realtà interessante, da osservare e analizzare. Il mosaico dell’Africa sub-sahariana unisce studi e riflessioni su vari problemi e tematiche di quest’area del mondo, approfondendo ambiti trasversali della geografia: la geopolitica, le micro-geografie e la sostenibilità. 

La finalità primaria del libro è fornire uno strumento di lettura di una realtà geografica molto complessa, articolata e in continuo cambiamento che alimenta molteplici interessi economico-politici e scientifici. 

L’idea che la popolazione occidentale ha dell’Africa è spesso distorta. Sovente corrisponde a quella di un luogo inospitale dove regnano malattia povertà caos conflitti armati. Eppure, ricorda Nicoletta Varani nelle note introduttive, l’Africa è un continente molto vasto, con una varietà di paesaggi e risorse naturali, costituito da società e popolazioni in evoluzione crescita e movimento. All’interno di esso poi, per certo, vi è anche povertà e disuguaglianza, al pari di quanto non vi sia sfruttamento e degrado.

Una realtà la quale, per certo, desta interessa, oggi non meno di quanto sia accaduto in passato.

A poco più di sessant’anni dall’inizio delle indipendenze africane, il Continente ha intrapreso un percorso di sviluppo completamente nuovo. In questi anni recenti, prima della pandemia da Covid-19, ha fatto registrare una rapida crescita demografica – circa 1.3miliardi di abitanti –, e altre trasformazioni, quali la crescente urbanizzazione e la diffusione di nuove tecnologie, che permettono e permetteranno di contribuire allo sviluppo economico e commerciale del Continente.

Nonostante sia stata a lungo considerata un soggetto marginale da condurre per mano sulla strada della civilizzazione, un recipiente passivo di interventi e aiuti provenienti dal Nord, oggi il continente africano sembra aver ripreso in mano il proprio destino offrendo il suo contributo alla comprensione dei fenomeni della contemporaneità. Le grandi civiltà del suo passato e la straordinaria creatività della sua popolazione contemporanea – costituita in gran parte da giovani inseriti nella globalizzazione grazie dalla diffusione capillare delle tecnologie digitali – suggeriscono uno scenario di grande interesse per una teoria sociale che voglia uscire finalmente dall’eurocentrismo per tentare di comprendere le più recenti dinamiche globali.

Spesso gli osservatori europei hanno insistito sull’intrinseca fragilità delle democrazie africane, apparentemente incapaci di raggiungere un adeguato livello di maturazione. Frequenti sono i brogli elettorali e la corruzione delle classi dirigenti. Questi fenomeni, apparsi in un primo momento nel mondo coloniale e postcoloniale, stanno progressivamente investendo anche le democrazie occidentali. Si diffondono a macchia d’olio nei paesi del Nord sempre più alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. Dove si registra un continuo e progressivo indebolimento del tessuto sociale ed economico.1

Varani e Mazza sottolineano che l’Africa sub-sahariana si evidenza come un’area sempre più fornitrice di materie prime, attirando così l’interesse di numerosi imprenditori e compagnie che ritengono l’area africana un nuovo ampio spazio per gli investimenti. 

Anche in questo caso la diffusione della pandemia ha rallentato molti finanziamenti a cui vanno sommate le endemiche instabilità di politica interna che caratterizzavano il Continente.

In soli dieci anni – tra il 2012 e il 2022 – sono stati registrati colpi si stato in Burkina Faso, Mali, Ciad e Niger, instabilità costanti nell’area dei Grandi Laghi, Corno d’Africa e Sahel, instabilità endemica in Somalia, il conflitto di Camerun e la guerra in Tigrè. 

Negli stessi anni, sia i paesi europei sia gli Stati Uniti, occupati a risolvere crisi e diatribe interne, spesso non hanno dato risposta alle richieste di molti paesi africani circa la fornitura di strumenti di difesa e aiuti per la formazione. La Repubblica Popolare Cinese e la Russia hanno invece risposto alle richieste con partenariati di cooperazione di sicurezza. 

Per contrastare l’influenza di Russia e Cina, il Dipartimento della Difesa americano sta elaborando programmi e autorizzando fondi, come emerge anche dallo Strategy and the Congressional National Defense Authorization Act for Fiscal Year 2023. Per gli autori, a breve sarà visibile una competizione tra grandi potenze: Russia e Cina, entrambe presenti molto attivamente nel Continente e impegnate soprattutto nel Sahel, e gli Stati Uniti.

Il 29 gennaio si è tenuto a Palazzo Madama il vertice Italia-Africa. Un ponte per una crescita comune, cui hanno partecipato anche rappresentanti dell’Unione Europea e di organismi internazionali quali le Nazioni Unite. La presidente Giorgia Meloni ha dichiarato apertamente che «all’Africa serve l’Europa». Iniziano così le azioni preliminari per l’avvio del Piano Mattei, un progetto strutturato in cinque punti, o pilastri come li ha definiti lo stesso governo italiano: Istruzione e Formazione, Agricoltura, Salute, Energia, Acqua. Pilastri interconnessi tra loro con gli interventi sulle infrastrutture, generali e specifiche in ogni ambito. È prevista inoltra la creazione, entro l’anno in corso, di un nuovo strumento finanziario per agevolare insieme a Cassa depositi e prestiti gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei. 

Oggi il continente africano è formato da 55 stati, i quali posseggono quasi i medesimi confini tracciati dalle potenze coloniali europee, con la rappresentazione cartografica che risulta pressoché immutata nell’ultimo secolo. Tale suddivisione non ha mai tenuto conto delle aree culturali comuni, le quali sono state separate senza alcuna discrezione, frammentando centinaia di gruppi etnici, le quattro famiglie linguistiche principali e le numerosissime sottofamiglie, con conseguenti scontri e conflitti. 

L’orientamento generale che emerge, nell’analisi dei conflitti africani, è di caratterizzarli come lotte intestine, intra-statali, in apparenza etniche. Si ha la tendenza a spiegarne origine e sviluppo ricercandone un solo registro interpretativo principale, laddove gli stessi protagonisti ne utilizzano più di uno, dando loro il medesimo valore. In Europa e, in genere, sui media occidentali essi vengono rappresentate come brutali e selvagge, dal sapore esclusivamente etnico e perciò arcaiche, incomprensibili. Eppure si tratta di conflitti molto più moderni di ciò che si è portati a credere, legati alle condizioni socio-economiche e ambientali delle terre in cui scoppiano, dove si mescolano registri culturali e umani diversi.

L’Africa è entrata nella globalizzazione ancor prima dell’Europa, tornando a essere al centro degli interessi del commercio globale sia per le materie prime che per le infinite possibilità economiche che offre, inclusi i traffici illeciti. In molti casi ciò non ha fatto che acutizzare o far emergere vecchi conflitti mai del tutto sopiti o addirittura crearne di nuovi.2

Il continente africano è estremamente ricco di risorse naturali e detiene il 65% della terra arabile del pianeta. Eppure l’Africa detiene il primato del continente che ritrova molti dei suoi paesi nella parte più bassa della graduatoria ISU – Indice di Sviluppo Umano.

Benché la povertà non sia una causa diretta dei conflitti, essa rappresenta certamente un incentivo, poiché strettamente connessa all’appropriazione di ricchezza e risorse e, conseguentemente, all’illegalità e alla violazione dei diritti umani. L’estrema competizione per le risorse svolge un ruolo determinante per l’instabilità regionale, anche per via di alleanze di potere, talvolta implicite, tra uomini d’affari locali, signori della guerra e multinazionali. Lo stretto legame tra sfruttamento delle risorse minerarie e il finanziamento di guerre e conflitti è ormai noto. Basti pensare alla Repubblica Democratica del Congo.

La Grande guerra d’Africa è stato il risultato di un insieme di conflitti diversi, collegati tra loro al nodo centrale del conflitto tra il governo di Kabila e i suoi ex alleati ruandesi. Almeno sei paesi (Ruanda, Uganda, Angola, Zimbabwe, Namibia e Ciad) si combatterono con proprie truppe sul territorio congolese. A ciò vanno aggiunte le varie guerriglie il cui computo è tutt’ora arduo. Così, a partire dall’epicentro congolese, tutta l’Africa centrale è stata travolta, impoverendosi. Secondo il Programma Alimentare Mondiale, circa un terzo dei congolesi vivrebbe ancora oggi in uno stato di denutrizione e sottoalimentazione grave. 

Anche in Congo, come prima in Liberia e in seguito nel Sahel o in Nord Mozambico, il warlordismo ha cambiato pelle ed è diventato a pieno titolo un attore del caos indotto dalla globalizzazione competitiva, nel quale soggetti di tipo molto vario concorrono per il potere e le risorse.3

I megatrend, come il cambiamento climatico, la digitalizzazione, la crescita demografica e l’urbanizzazione, stanno trasformando tutti gli aspetti della politica, dell’economia e della società in Africa. Di conseguenza, influenzano anche le dinamiche dei conflitti, alterando i modelli di intervento straniero nelle aree di crisi. Nell’analisi degli autori, emergono due aspetti principali: la gamma dei poteri di intervento si sta allargando e si interviene sempre più a distanza, delegando. Al momento sono tre i paesi i quali maggiormente stanno intervenendo in un numero crescente di conflitti africani: Emirati Arabi Uniti, Turchia, Russia. 

Il fallimento delle politiche di sviluppo economico di molti stati africani ha generato forti discrepanze sulle direzioni dei modelli di cooperazione per lo sviluppo. Si è fatta sempre più largo la consapevolezza che la cooperazione Nord-Sud potesse rappresentare un ostacolo allo sviluppo di aree fragili, trovando l’unica alternativa nella strategia Sud-Sud.

La cooperazione Sud-Sud è una comune iniziativa sviluppata su esperienze condivise che coinvolgono stati del Sud, sulla base di obiettivi comuni con finalità di solidarietà e collaborazione tra eguali, riconoscendo la necessità di migliorare l’efficacia di suddetta cooperazione allineando le iniziative alle priorità di ciascun stato. 

Così pensata, la cooperazione Sud-Sud certifica il trasferimento di risorse, tecnologie e conoscenze tra i paesi in via di sviluppo, inserito all’interno delle rivendicazioni di un passato coloniale e post-coloniale condiviso, e ancorato nel quadro più ampio di promozione del valore collettivo del Sud. 

La riformulazione delle pratiche e delle strategie della cooperazione internazionale ha portato all’affermarsi, sulla scia dell’iniziativa Sud-Sud, della cooperazione triangolare. Gli autori ritengono essa si sia manifestata per la necessità di uno strumento più efficace per favorire strategie di sviluppo territoriale. 

L’espressione si riferisce allo scambio diretto di conoscenze esperienze competenze risorse e know-how tecnico fra i paesi in via di sviluppo, spesso con l’esistenza di un donatore o di un’organizzazione multilaterale. 

L’Agenda 2063 è il Piano di sviluppo per l’Africa per raggiungere uno sviluppo socio-economico inclusivo e sostenibile nell’arco di cinquant’anni.

Le società dell’Africa sub-sahariana sono fortemente condizionate da un crescente sentimento d’apertura verso sistemi democratici integrati in un’economia di mercato. Varani e Mazza ritengono evidente che la risultante di questi cambiamenti porti in dote tensioni sociali e conflitti su più scale, giustificando il riaffiorare di un certo pessimismo verso i processi di democratizzazione. 

Ancora oggi, difatti, la transizione socio-economica che investe il continente è frutto di logiche neocoloniali espresse dalla pressione occidentale volta all’adozione di un modello neoliberale. 

Il colonialismo è mai davvero finito, oppure è stato semplicemente adattato ai tempi? 

La società coloniale, fondata sulla dominazione, è inseparabile dalla società colonizzata, oggetto della dominazione. Oltre che dalla messa in rapporto delle differenze culturali, la situazione coloniale nasce dagli scarti stabiliti fra i suoi elementi costitutivi e dalla logica inegualitaria che ne organizza le relazioni. Dal punto di vista formale, queste relazioni si stabiliscono tra una minoranza demografica costituita in maggioranza sociologica dalla dominazione che esercita, cioè la società coloniale, e una maggioranza demografica ridotta allo stato di minoranza sociologica, che è poi la società colonizzata.4

La presidente Meloni ha dichiarato alla stampa che la logica del Piano Mattei è quella di una piattaforma programmatica, in una collaborazione da pari a pari che dovrà stabilire anche i contenuti esatti del testo. Il capitolo più delicato del Piano – che omaggia il fondatore dell’Eni Enrico Mattei e per questo ampiamente criticato proprio per il suo essere un nome di rimando coloniale – è il progetto già in essere dell’elettrodotto Elmed fra Italia e Tunisia e l’iniziativa per lo sviluppo di biocarburanti in Kenya. 

Il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki, ha sottolineato l’apprezzamento verso il cambio di paradigma nei rapporti con l’Africa ma ha anche dichiarato che avrebbe preferito essere consultato sui punti del Piano stesso. 

L’Africa è per certo un Continente ricco di criticità ma, accanto a queste, gli autori hanno voluto sottolineare l’infinita serie di potenzialità che potrebbero e dovrebbero rappresentare degli strumenti utili per ridefinire le strategie di sviluppo del territorio, garantendo una maggiore indipendenza su larga scala. Potenzialità che fanno capo, soprattutto, alla consistente presenza di risorse naturali, sulle quali si manifestano gli interessi di paesi occidentali, in quella che per gli autori si presenta come una “nuova colonizzazione”. 

Il libro

Nicoletta Varani, Giampietro Mazza, Il mosaico dell’Africa sub-sahariana. Sostenibilità e geopolitica, Carocci Editore, Roma, 2023


1Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

2Mario Giro, Guerre nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020.

3Mario Giro, op.cit.

4Georges Balandier, La situazione coloniale e altri saggi, Meltemi Editore, Milano, 2022.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Carocci Editore per la disponibilità e il materiale.

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Francesco Erbani, Roma adagio

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Di cosa parliamo quando parliamo di Roma? È questo l’interrogativo intorno al quale Francesco Erbani ha costruito il libro. 

Roma è grande: 1.287 chilometri quadrati. Una città che sembra una matrioska. La parte all’interno della cinta muraria dell’età imperiale, sopravvissuta o meno che sia, racchiude la Roma antica, quella d’età repubblicana e imperiale, quel poco di Roma medievale e la spettacolare Roma del periodo che va dal Quattrocento all’Ottocento. Appena oltre la cinta muraria c’è la Roma dell’Unità d’Italia. La Roma che diventa capitale e, dunque, la Roma umbertina e poi Liberty. 

Tra il 753 a.C. e il 1950 Roma si estende su circa dodicimila ettari. Poi, in poco più di settant’anni, il territorio costruito arriva a superare i cinquantamila ettari. 

Ecco allora che giunge il consiglio dell’autore per chiunque si accinga a visitare Roma o, pur conoscendola, intenda viverla in maniera diversa: andare adagio. Ciò può significare percepire e assaporare la città nel suo complesso. 

L’idea è quella di suddividere la città in zone simili a dei cerchi concentrici, un po’ come gli anelli che vanno a comporre la città di Mosca in Russia. La prima macrozona è il centro storico, poi la periferia, anch’essa storica, arroccata lungo le vie consolari. La città residenziale è la terza macrozona, abitata da impiegati e professionisti e da molti considerata frutto esemplare della speculazione edilizia. L’ultima è quella che si sviluppa a partire dalla fine degli anni ottanta del Novecento, la cosiddetta città anulare, a ridosso del Gra – Grande raccordo anulare. Quello che avrebbe dovuto rappresentare il limite della città e che invece è diventato «il focolaio di un vasto e incontrollato incendio edilizio».

E poi c’è la parte quasi impercettibile che all’autore sta più cara: la campagna romana. Settantacinquemila ettari non edificati, se non sparutamente. Un patrimonio storico e archeologico forse un po’ bistrattato ma per certo dal valore inestimabile. 

L’intento di Erbani sembra essere quello di raccontare gli angoli più suggestivi di una Roma lontana dai riflettori di turismo e spettacolo, non per questo meno bella, anzi proprio per questo più interessante e scriverlo in un libro che fosse quanto più distante possibile da una guida di viaggio perché egli non parla di itinerari, no lancia solo dei piccoli input, sarà poi il lettore stesso, laddove decida di trasformarsi in viaggiatore, a tracciare i propri, a visitare i luoghi da lui scelti, la Roma da lui selezionata. Lo scopo di Roma adagio sembra essere proprio quello di far luce dove ora è buio, ovvero illuminare l’anima stessa della Capitale, con la sua storia millenaria, i suoi spazi vuoti, o meglio liberi, i suoi angoli dimenticati, i reperti archeologici trascurati, le strette vie trasandate. Tutto quello che insieme ai famosi monumenti, le vie consolari, i palazzi e i musei contribuisce a renderla eterna.

A tratti sembra quasi che l’idea di Erbani sia la medesima e spontanea abbracciata a Napoli dove i vicoli del centro storico insieme ad altri quartieri prima bistrattati e mal visti sono diventati meta di un vero e proprio pellegrinaggio. Nulla è stato fatto per modificarne l’aspetto, sono rimasti pressoché invariati eppure i visitatori hanno imparato a guardarli con occhi diversi. Hanno cercato oltre il primo impatto o l’immagine stereotipata e hanno incontrato la loro essenza, ne hanno riconosciuto la storia e ne hanno fatto l’anima di un turismo completamente nuovo il quale, per induzione, ha portato gli stessi cittadini a viverli in una maniera tutta nuova.

La Roma raccontata da Erbani è quella delle piccole realtà quotidiane, di oggi come di ieri, di scorci di un paesaggio che viene da lontano e guarda al futuro. Ma è anche la città caotica e problematica che tutti conosciamo. Una città difficile, complessa, a tratti disperata, come sospesa tra l’eterno e il viver quotidiano

La Roma che Erbani invita a visitare e conoscere è una città a spicchi, ognuno dei quali può condurre dal centro alla periferia e viceversa. E in ogni spicchio si possono ritrovare alcuni o tutti i temi con cui l’autore ha strutturato e suddiviso il libro: l’acqua, il verde, i palazzi, le chiese, le piazze, l’antico, i musei. Percorsi segnati dal tempo ma, a volte, fuori da esso che vivono ed esistono, come il resto della città, ancorati a un’esistenza che sembra priva di regole e disciplina, un passato nella modernità che vuol risucchiare quest’ultima secondo una logica anacronistica che, se da un lato, genera fascino, dall’altro produce scompenso. Caos. 

Ma Erbani cerca di non far perdere il lettore in questi tormenti e insiste sull’adagio come vero e proprio stile di vita. Un esercizio per il corpo e per la mente, un percorso interiore da compiere insieme a quello esteriore, paesaggistico e architettonico, per scoprire la città certo ma anche per ritrovare se stessi, come abitanti o come visitatori.

Il libro

Francesco Erbani, Roma adagio. La città eterna, la città quotidiana, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2023

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Enrico Damiani Editore per la disponibilità e il materiale.

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